lunedì 28 maggio 2012

Alcuni aneddoti sull'empietà del tiranno Dionigi

Alcuni aneddoti sull'empietà del tiranno Dionigi (Autore: Cicerone; dal libro: Corso di lingua latina B dalla grammatica alla traduzione unità 14/25)

Duodequadraginta Dionysius tyrannus annos fuit opulentissumae et beatissumae civitatis.Diogenes quidem Cynicus dicere solebat Harpalum, qui temporibus illis praedo felix habebatur, contra deos testimonium dicere, quod in illa fortuna tam diu viveret. Dionysius, de quo ante dixi, cum fanum Proserpinae Locris expilavisset, navigabat Syracusas; isque cum secundissumo vento cursum teneret, ridens 'Videtisne', inquit, 'amici, quam bona a dis inmortalibus navigatio sacrilegis detur?' Atque homo acutus cum bene planeque percepisset, in eadem sententia perseverabat. Qui quom ad Peloponnesum classem appulisset et in fanum venisset Iovis Olympii, aureum ei detraxit amiculum grandi pondere, quo Iovem ornarat e manubus Carthaginiensium tyrannus Gelo, atque in eo etiam cavillatus est aestate grave esse aureum amiculum, hieme frigidum, eique laneum pallium iniecit, cum id esse ad omne anni tempus diceret. Idemque Aesculapi Epidauri barbam auream demi iussit; neque enim convenire barbatum esse filium, cum in omnibus fanis pater imberbis esset.

Iam mensas argenteas de omnibus delubris iussit auferri, in quibus, quod more veteris Graeciae inscriptum esset bonorum deorum, uti se eorum bonitate velle dicebat. Idem Victoriolas aureas et pateras coronasque, quae simulacrorum porrectis manibus sustinebantur, sine dubitatione tollebat eaque se accipere, non auferre dicebat; esse enim stultitiam, a quibus bona precaremur, ab is porrigentibus et dantibus nolle sumere. Eundemque ferunt haec, quae dixi, sublata de fanis in forum protulisse et per praeconem vendidisse exactaque pecunia edixisse, ut, quod quisque a sacris haberet, id ante diem certam in suum quicque fanum referret: ita ad impietatem in deos in homines adiunxit iniuriam.


Dionisio tiranneggiò per trentotto anni una ricchissima e felicissima città;
Diogene il Cinico era solito affermare che Arpalo, considerato a quei tempi come un pirata fortunato, costituiva per la sua lunga fortuna una vivente testimonianza contro gli dèi. Dionisio, di cui s'è già detto, dopo aver depredato a Locri il tempio di Proserpina, stava navigando verso Siracusa. Visto che il viaggio procedeva bene con il favore del vento: « Vedete » disse ridendo «o amici, che bella navigazione gli dèi immortali offrono ai sacrileghi? ». Da uomo acuto quale era, considerata bene ogni cosa, perseverò nello stesso atteggiamento. Sbarcato nel Peloponneso e giunto nel tempio di Giove Olimpio spogliò la statua dei Dio del pesante mantello d'oro di cui l'aveva ornata Gelone servendosi del bottino tolto ai Cartaginesi e non si peritò di fare dello spirito sulla cosa dicendo che un mantello d'oro è fastidioso d'estate e freddo d'inverno: rivesti perciò la statua di un mantello di lana col pretesto che essa si adattava a tutte le stagioni. Analogamente ad Epidauro ordinò che si asportasse la barba d'oro di Esculapio col pretesto che non era bello che il figlio avesse la barba quando in tutti i templi il padre era raffigurato senza barba.
Fece anche asportare da tutti i templi le mense d'argento e poiché queste recavano, secondo l'antico uso greco, l'iscrizione « degli dèi buoni » diceva di voler fruire di questa loro bontà. Non sì faceva neppure scrupolo di prelevare le piccole Vittorie d'oro, le tazze e le corone sorrette dalle mani protese delle statue e affermava che questa era una accettazione, non una sottrazione, in quanto sarebbe stata una sciocchezza chiedere dei beni agli dèi per poi non volerli accettare quando sono essi stessi ad offrirceli con le loro stesse mani. Si tramanda anche che il tiranno portasse al mercato gli oggetti tolti dai templi e li vendesse per mezzo di un banditore e che quindi, riscosso il danaro, ordinasse che ciascuno prima di un giorno stabilito riportasse l'oggetto sacro acquistato nel suo tempio: in tal modo all'empietà nei riguardi degli dèi aggiunse un sopruso a danno degli uomini. Ebbene, né Giove Olimpio lo colpì con il fulmine né Asclepio lo fece morire con una lunga e debilitante malattia, ma morì nel suo letto e fu adagiato su un rogo regale e lasciò in eredità al figlio come giusto e legittimo quel potere che si era procurato col delitto.

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