martedì 29 maggio 2012

Libro 2

L'inganno del cavallo. Il falso racconto di Sinone. Laocoonte. [vv.1-227]    

Tra l'attenta e silenziosa attesa di tutti, Enea, dopo aver affermato che la rievocazione dei fatti che sta per narrare è per lui molto dolorosa, inizia il suo lungo racconto. I Greci, visti inutili i numerosi tentativi di espugnare Troia, costruiscono un gigantesco cavallo di legno e fanno entrare al suo interno uno stuolo di soldati scelti. Diffondono la voce che il cavallo sia un voto agli dei per il ritorno e organizzano la messinscena di una falsa partenza andando a nascondersi nell'isoletta di Ténedo, di fronte a Troia. I Troiani, convinti che i nemici siano partiti, escono in massa dalle mura. Tutti ammirano stupiti la mole del cavallo. C'è chi propone di distruggerlo e chi invece vorrebbe introdurlo in città. dalla rocca accorre il sacerdote di Nettuno Laocoonte, il quale ritiene che il cavallo nasconda qualche insidia. Frattanto, mentre Laocoonte cerca di convincere i Troiani dell'insidia, viene portato un prigioniero greco di nome Sinone, che si è lasciato catturare di proposito per ingannare i Troiani. Sinone inventa una storia che commuove i Troiani, i quali risparmiano la vita al falso prigioniero e gli chiedono per quale motivo i Greci abbiano costruito quell'enorme cavallo. Sinone risponde che il cavallo è un'offerta espiatoria per Minerva (Pallade Atena) irata con i Greci a causa di un sacrilegio commesso nel suo tempio da Ulisse e Diomede. Il cavallo -continua Sinone- è stato costruito in quelle dimensioni per impedire che venga introdotto nella città. Infatti, se i Troiani riusciranno a portarlo in città l'Asia conquisterà la Grecia, mentre, se distruggeranno il cavallo, sul regno di Priamo si abbatterà una terribile rovina. Un terribile prodigio convince definitivamente i Troiani dell'attendibilità di Sinone. Mentre Laocoonte sta compiendo un sacrificio al dio Nettuno in riva la mare, escono dalle acque due serpenti che lo assalgono e lo uccidono insieme ai suoi figli. Terrorizzati dall'avvenimento, i Troiani pensano che il sacerdote sia stato punito per la sua incredulità e decidono di portare il cavallo in città aprendo una breccia nel muro per consentirne il passaggio.

Ettore appare in sogno a Enea. I Greci escono dal cavallo. La città è invasa [vv.228-297]

L'orrenda fine di Laocoonte è considerata la prova della veridicità delle parole di Sinone. Tutti si apprestano con entusiasmo a portare il cavallo nella città. Nonostante che durante il trasporto l'interno risuoni del rumore delle armi, viene aperta una breccia nelle mura e il cavallo è issato sulla rocca. La città è in festa e invano Cassandra presagisce l'imminente sciagura. Calano frattanto le tenebre e, quando tutti sono immersi nel sonno, la flotta greca muove silenziosamente da Tenedo e manda un segnale a Sinone che apre la cavità del cavallo e fa uscire i Greci. A Enea, immerso nel sonno, appare l'ombra di Ettore, col volto insanguinato e sfigurato come era quando Achille aveva fatto scempio del suo corpo. Ettore piangendo annuncia a Enea la sciagura che si è abbattuta su Troia e lo invita a fuggire precipitosamente: ormai non c'è più scampo, la città non può essere difesa e a Enea è affidato il compito di mettere in salvo le cose sacre e i Penati di Troia. 

[vv.298-434] 

Frattanto nella città infuria la strage. I rumori della battaglia giungono anche alla casa di Enea, il quale si sveglia di soprassalto e impugna le armi. Si uniscono a lui altri compagni ed Enea, con la mente sconvolta dall'ira si getta nella mischia. La schiera guidata da Enea si imbatte in un drappello di Greci al comando di Androgeo che li scambia giunti ora dalla nave e li rimprovera per la loro lentezza. Quando si accorge dell'errore è troppo tardi: i Troiani assalgono i Greci, li uccidono e si impadroniscono delle armi e delle insegne dei nemici. In questo modo riescono a trarre in inganno gli invasori uccidendone molti e costringendo altri a fuggire verso il lido o a rifugiarsi all'interno del cavallo. Enea e compagni giungono presso il tempio di Minerva dove assistono a uno spettacolo crudele. Cassandra, la profetessa figlia di Priamo, è trascinata fuori dal tempio da Aiace Oileo. Corebo, uno dei compagni di Enea e promesso sposo di Cassandra, si lancia contro i nemici seguito dai compagni, ma i Troiani appostati sul tetto li scambiano per nemici e comincino a bersagliarli. Accorrono frattanto molti Greci e il drappello di coraggiosi Troiani è individuato e viene sopraffatto. Enea con i superstiti si dirige al palazzo di Priamo

Invasione della reggia e assassinio di Priamo [vv.435-558]

Enea e i suoi compagni si dirigono alla reggia di Priamo, dove infuria la battaglia. Enea, attraverso un passaggio segreto, riesce a penetrare nel palazzo e, salito in cima a un tetto, fa rotolare sugli assedianti una torre. Ma ogni tentativo di difesa è vano. I nemici, guidati da Neottolemo/Pirro, figlio di Achille, accorrono ancora più numerosi e hanno la meglio: irrompono nelle grandi e magnifiche sale della reggia e fanno strage di Troiani. Il vecchio re Priamo, in un vano tentativo di difesa, indossa l'armatura, ma la moglie Ecuba lo conduce presso un altare insieme alle figlie, sperando che i nemici rispettino i luoghi sacri. Pirro, continuando la sua crudele strage, insegue Polite, il figlio di Priamo, e lo uccide proprio davanti agli occhi del padre. Allora Priamo, augurandosi che gli dei lo puniscano per quell'atto sacrilego, vibra un innocuo colpo di lancia contro Pirro. Questi, pronunciando parole piene di sarcasmo, lo afferra per i capelli e lo trafigge. 

Enea torna alla sua casa. La fuga dalla città. La scomparsa di Creusa [vv.559-804]

Enea è sconvolto per la morte di Priamo e il suo pensiero corre al vecchio padre Anchise, alla moglie Creùsa, al figlio Iulo e alla casa distrutta. Mentre Enea constata di essere rimasto solo, vede Elena nascosta in un luogo appartato, accanto al tempio di Vesta. Al pensiero che essa potrà tornare salva in patria mentre Troia viene distrutta per colpa sua, Enea è assalito da un impeto d'ira; medita di uccidere la donna e di vendicare così tutte le vittime della guerra. Appare all'improvviso la madre Venere che lo distoglie dal suo proposito e lo esorta a pensare di mettere subito in salvo i suoi familiari: la responsabilità della guerra non è degli uomini, ma va ricercata nella volontà degli dei. La madre mostra a Enea lo spettacolo degli dei che si accaniscono contro i Troiani. Enea a quella vista si convince che non c'è più nessuna possibilità di salvare la città e si dirige verso la dimora paterna, dove trova il vecchio padre Anchise deciso a morire nella sua casa. Nonostante le preghiere del figlio, Anchise è irremovibile. Allora Enea, piuttosto che partire senza il padre, si arma di nuovo e si accinge a tornare a combattere. All'improvviso accade un prodigio: una fiamma avvolge il capo di Iulo. Anchise riconosce nella fiamma un segno divino e, dopo aver ottenuto una conferma della volontà degli dei, acconsente a seguire il figlio. Creusa, si dirige all'uscita della città, indicando ai suoi compagni come luogo di ritrovo un vecchio tempio abbandonato fuori dalle mura. Qui giunto, si accorge che tutti sono arrivati tranne Creusa. Enea ritorna disperato alla ricerca della moglie. Rientra nella casa paterna ormai invasa dalle fiamme, nella reggia di Priamo dove i Greci hanno ammassato un enorme bottino. Invano. Di Creusa non c'è più traccia. Infine, mentre nelle tenebre invoca ad alta voce il nome della sposa, gli appare il fantasma di lei già morta. Essa lo consola dicendogli che è morta per volere degli dei, mentre Enea dovrà affrontare un lungo viaggio verso occidente dove troverà un nuovo regno e una nuova sposa. Ritornato al tempio, Enea trova molti altri Troiani scampati all'eccidio pronti a seguirlo.
 

lunedì 28 maggio 2012

Libro 1

Il proemio e l'ira di Giunone [vv. 1-33]

Come l'Iliade e l'Odissea, l'Eneide si apre con l'esposizione dell'argomento del poema e l'invocazione alla Musa: il poeta si appresta a narrare le dolorose vicende e i pericoli affrontati da Enea prima di stabilirsi nel Lazio dopo la fuga da Troia, e chiede alla Musa che gli ricordi il motivo dell'ira implacabile che spinge Giunone a tenere lontani Enea e i suoi compagni dal lido italico. La dea predilige la città di Cartagine e agli antichi motivi del suo odio verso i Troiani se ne aggiunge un altro ben più grave: se Enea si insedierà nel Lazio, da lui discenderà una stirpe che dominerà su tutti i popoli del Mediterraneo e porterà rovina alla città che le è cara.

[vv.34-80]

La flotta troiana, continuando il suo viaggio, salpa dalla Sicilia diretta verso il Lazio. Giunone, risentita, si propone di ostacolare con ogni mezzo il viaggio di Enea. La dea è consapevole del fatto che il destino dell'eroe è quello di raggiungere l'Italia, ma non desiste dall'intento perché, se lo facesse, perderebbe il prestigio proprio della regina degli dèi. Si reca perciò presso la sede del re dei venti, Eolo, e lo convince a scatenare una furiosa tempesta contro la flotta di Enea. Come compenso, giunone promette in sposa a Eolo la più bella delle sue sette Ninfe.

La tempesta e l'approdo sulle coste della Libia [vv.81-221]

I venti scatenano una violenta tempesta che disperde le navi e le spinge verso la costa africana. Alcune navi sono in balia dei marosi e rischiano di affondare, altre urtano contro le scogliere, altre s'incagliano sui bassi fondali, una nave cola a picco. Nettuno però si accorge della tempesta e , indignato contro chi si è intromesso nel suo regno, impone ai venti di tornare nella loro dimora. Poi, correndo sull'ampia distesa del mare, riporta la calma. I superstiti trovano rifugio in un'insenatura dalle pareti a strapiombo, protetta da un'isoletta. Riescono ad approdare in questo porto naturale sette navi. I Troiani sbarcano e accendono un fuoco per asciugare il frumento bagnato. Frattanto Enea sale su un promontorio e guarda verso la distesa del mare alla ricerca di navi superstiti. Di lì vede invece un branco di cervi e ne uccide alcuni procurando così il cibo per tutti. Dopo che i naufraghi si sono sfamati, Enea, reprimendo l'angoscia e la preoccupazione per i compagni dispersi, conforta i superstiti, ricorda che insieme hanno affrontato situazioni ben più gravi e che ora più che mai dovranno mostrarsi coraggiosi: la meta è il Lazio dove finalmente potranno trovare una nuova patria.

[vv.223-253]

Tornata la calma sul mare per opera di Nettuno, la scena si sposta in cielo, dove Venere, la madre di Enea, si lamenta con Giove delle continue prove che il figlio è costretto ad affrontare, in contrasto con la gloriosa sorte promessa a lui e ai suoi discendenti

Giove conforta Venere [vv.254-296]

Giove sorridendo rassicura Venere che nulla è cambiato nel destino dell'eroe, il quale arriverà in Italia dove i suoi discendenti fonderanno un grande impero.

[297-417]

Giove manda Mercurio a Cartagine per fare in modo che i Cartaginesi, e in particolare la loro regina Didone, accolgano benignamente i Troiani. Enea, all'alba del giorno seguente, dopo aver nascosto le navi in un'insenatura protetta dai boschi, va a esplorare i luoghi circostanti accompagnato da Acate. I due incontrano una bellissima cacciatrice che li informa che si trovano sul territorio cartaginese, su cui regna Didone fuggita da Tiro, sua patria. A Tiro Didone aveva sposato Sichèo. Questi era stato ucciso dal fratello di lei, Pigmalione, che voleva impossessarsi delle immense ricchezze di Sicheo. L'ombra del marito era apparsa in sogno alla moglie esortandola a fuggire subito da Tiro. Didone obbedì e lasciò la città con una schiera di compagni portandosi i tesori che Pigmalione bramava possedere. La cacciatrice incoraggia Enea a entrare nella nuova città che Didone sta edificando e a chiedere ospitalità alla regina; inoltre, gli annuncia che le navi che credeva perdute sono scampate al naufragio. Detto questo, si dilegua ed Enea riconosce in lei la madre Venere. La dea avvolge Enea e Acate in una nube in modo da renderli invisibili. Giunti in città, i due salgono su un'altura da dove si possono scorgere i Tirii intenti alla costruzione degli edifici

L'accoglienza di Didone. Cupido fa innamorare la regina [vv.418-756]

Nel centro della città c'è un bosco sacro  nel quale Didone sta innalzando un tempio a Giunone. Enea entra nel tempio e comprende di essere tra uomini civili perché vede raffigurate in vari quadri le scene della guerra di Troia. Intanto nel tempio fa il suo ingresso la bellissima regina che con saggezza amministra la giustizia e distribuisce incarichi tra i sudditi. Davanti alla regina si presenta un'ambasceria di Troiani dispersi dalla tempesta e spinti in un altro punto della costa. Il loro capo Ilioneo supplica la regina di impedire l'incendio delle navi: essi sono naufraghi e non pirati venuti per saccheggiare, e sperano di ricongiungersi con il loro re Enea, la cui nave è stata dispersa dalla tempesta. Ilioneo chiede inoltre di essere ospitato con i suoi compagni per tutto il tempo necessario alla riparazione delle navi. Essa rassicura i Troiani e promette che saranno accolti amichevolmente: conosce le loro imprese e ciò che è accaduto alla loro città. Si augura che Enea sia sopravvissuto e si impegna a far perlustrare la costa alla sua ricerca. A queste parole Enea e Acate sono impazienti di presentarsi, mentre Venere rende più splendente di bellezza e di giovinezza il figlio. Didone accoglie benevolmente i supplici troiani che chiedono ospitalità. Enea esprime gratitudine ala regina, che lo invita al palazzo e provvede a mandare provviste ai Troiani rimasti in riva al mare. Acate è inviato alle navi perché informi Ascanio e lo faccia venire alla reggia recando vesti preziose e gioielli da offrire in dono alla regina. Venere diffida dei Cartaginesi e della regina e perciò decide di sostituire Ascanio con il figlio Cupido, affinché questi susciti nella regina l'amore per Enea. Venere spiega a Cupido il motivo della sua decisione e lo invita ad accendere la fiamma dell'amore nella regina, quando essa lo accoglierà in grembo. Cupido accetta volentieri l'incarico affidatogli dalla madre e sotto le sembianze di Ascanio giunge alla reggia con i doni. Ha inizio il sontuoso banchetto a cui prendono parte anche numerosi Cartaginesi. Didone, colpita dalla bellezza del falso Ascanio, fa sedere sul suo grembo il fanciullo che infonde in lei una viva passione per Enea cancellando dalla sua memoria l'amore per Sicheo. Terminato il banchetto, vengono portati grandi crateri pieni di vino. Didone brinda invocando la protezione degli dei sui Cartaginesi e sui Troiani. Poi il cantore Iopa allieta i convitati con i suoi canti che celebrano l'ordine cosmico. Didone, ormai vinta dall'amore, non si stanza di interrogare Enea sui fatti della guerra troiana e infine lo prega di narrare l'insidia del cavallo e le sventure toccate a lui dopo la distruzione della città.

Sintesi dei Libri

Libro 1
Libro 2

Ad ferendum dolorem placide

Ad ferendum dolorem placide (Autore: Cicerone)

Ad ferendum igitur dolorem placide atque sedate plurimum proficit toto pectore, ut dicitur, cogitare quam id honestum sit. Sumus enim natura, ut ante dixi (dicendum est enim saepius), studiosissimi adpetentissimique honestatis; cuius si quasi lumen aliquod aspeximus, nihil est quod, ut eo potiamur, non parati simus et ferre et perpeti. Ex hoc cursu atque impetu animorum ad aeram laudem atque honestatem illa pericula adeuntur in proeliis; non sentiunt viri fortes in acie vulnera, vel sentiunt, sed mori malunt quam tantum modo de dignitatis gradu demoveri. 59 Fulgentis gladios hostium videbant Decii, cum in aciem eorum inruebant. His levabat omnem vulnerum metum nobilitas mortis et gloria. Nam tam ingemuisse Epaminondam putas, cum una cum sanguine vitam effluere sentiret? Imperantem enim patriam Lacedaemoniis relinquebat, quam acceperat servientem. Haec sunt solacia, haec fomenta summorum dolorum.

E allora, al fine di sopportare il dolore in maniera tranquilla e serena, atteggiamento molto utile (giova molto) è pensare - con tutta l'anima, come si suol dire - a quanto ciò sia moralmente nobile . Infatti - come ho già detto, ma è bene ripeterlo spesso - nutriamo, per natura, eccezionale desiderio della nobiltà morale; e se di tale (nobiltà) noi abbiamo intravisto, come dire , un lume , (allora) non c'è alcunché che non siamo pronti a sopportare e ad affrontare per conquistarlo .
In virtù di questo slancio dell'anima verso la vera gloria e la nobiltà morale vengono affrontati i pericoli in battaglia; gli uomini forti non soffrono le ferite durante il combattimento ; ovvero, le accusano, ma preferiscono la morte al disonore, per quanto lieve. I Decii vedevano le spade nemiche scintillare, quando irrompevano nelle loro schiere; (vedevano) la morte gloriosa stornava loro tutta la paura delle ferite. Del resto, credi che Epaminonda abbia levato eccessivi lamenti , quando sentiva che la vita scivolava via insieme col sangue .Egli infatti restituiva la patria agli Spartani, mentre l'aveva trovata asservita! Queste sono le vere soddisfazioni che leniscono i più grandi dolori!

Alcuni aneddoti sull'empietà del tiranno Dionigi

Alcuni aneddoti sull'empietà del tiranno Dionigi (Autore: Cicerone; dal libro: Corso di lingua latina B dalla grammatica alla traduzione unità 14/25)

Duodequadraginta Dionysius tyrannus annos fuit opulentissumae et beatissumae civitatis.Diogenes quidem Cynicus dicere solebat Harpalum, qui temporibus illis praedo felix habebatur, contra deos testimonium dicere, quod in illa fortuna tam diu viveret. Dionysius, de quo ante dixi, cum fanum Proserpinae Locris expilavisset, navigabat Syracusas; isque cum secundissumo vento cursum teneret, ridens 'Videtisne', inquit, 'amici, quam bona a dis inmortalibus navigatio sacrilegis detur?' Atque homo acutus cum bene planeque percepisset, in eadem sententia perseverabat. Qui quom ad Peloponnesum classem appulisset et in fanum venisset Iovis Olympii, aureum ei detraxit amiculum grandi pondere, quo Iovem ornarat e manubus Carthaginiensium tyrannus Gelo, atque in eo etiam cavillatus est aestate grave esse aureum amiculum, hieme frigidum, eique laneum pallium iniecit, cum id esse ad omne anni tempus diceret. Idemque Aesculapi Epidauri barbam auream demi iussit; neque enim convenire barbatum esse filium, cum in omnibus fanis pater imberbis esset.

Iam mensas argenteas de omnibus delubris iussit auferri, in quibus, quod more veteris Graeciae inscriptum esset bonorum deorum, uti se eorum bonitate velle dicebat. Idem Victoriolas aureas et pateras coronasque, quae simulacrorum porrectis manibus sustinebantur, sine dubitatione tollebat eaque se accipere, non auferre dicebat; esse enim stultitiam, a quibus bona precaremur, ab is porrigentibus et dantibus nolle sumere. Eundemque ferunt haec, quae dixi, sublata de fanis in forum protulisse et per praeconem vendidisse exactaque pecunia edixisse, ut, quod quisque a sacris haberet, id ante diem certam in suum quicque fanum referret: ita ad impietatem in deos in homines adiunxit iniuriam.


Dionisio tiranneggiò per trentotto anni una ricchissima e felicissima città;
Diogene il Cinico era solito affermare che Arpalo, considerato a quei tempi come un pirata fortunato, costituiva per la sua lunga fortuna una vivente testimonianza contro gli dèi. Dionisio, di cui s'è già detto, dopo aver depredato a Locri il tempio di Proserpina, stava navigando verso Siracusa. Visto che il viaggio procedeva bene con il favore del vento: « Vedete » disse ridendo «o amici, che bella navigazione gli dèi immortali offrono ai sacrileghi? ». Da uomo acuto quale era, considerata bene ogni cosa, perseverò nello stesso atteggiamento. Sbarcato nel Peloponneso e giunto nel tempio di Giove Olimpio spogliò la statua dei Dio del pesante mantello d'oro di cui l'aveva ornata Gelone servendosi del bottino tolto ai Cartaginesi e non si peritò di fare dello spirito sulla cosa dicendo che un mantello d'oro è fastidioso d'estate e freddo d'inverno: rivesti perciò la statua di un mantello di lana col pretesto che essa si adattava a tutte le stagioni. Analogamente ad Epidauro ordinò che si asportasse la barba d'oro di Esculapio col pretesto che non era bello che il figlio avesse la barba quando in tutti i templi il padre era raffigurato senza barba.
Fece anche asportare da tutti i templi le mense d'argento e poiché queste recavano, secondo l'antico uso greco, l'iscrizione « degli dèi buoni » diceva di voler fruire di questa loro bontà. Non sì faceva neppure scrupolo di prelevare le piccole Vittorie d'oro, le tazze e le corone sorrette dalle mani protese delle statue e affermava che questa era una accettazione, non una sottrazione, in quanto sarebbe stata una sciocchezza chiedere dei beni agli dèi per poi non volerli accettare quando sono essi stessi ad offrirceli con le loro stesse mani. Si tramanda anche che il tiranno portasse al mercato gli oggetti tolti dai templi e li vendesse per mezzo di un banditore e che quindi, riscosso il danaro, ordinasse che ciascuno prima di un giorno stabilito riportasse l'oggetto sacro acquistato nel suo tempio: in tal modo all'empietà nei riguardi degli dèi aggiunse un sopruso a danno degli uomini. Ebbene, né Giove Olimpio lo colpì con il fulmine né Asclepio lo fece morire con una lunga e debilitante malattia, ma morì nel suo letto e fu adagiato su un rogo regale e lasciò in eredità al figlio come giusto e legittimo quel potere che si era procurato col delitto.

Agli uomini saggi non importano le sorti del corpo dopo la morte

Agli uomini saggi non importano le sorti del corpo dopo la morte (Autore: Cicerone)

Cyrenaeus Theodorus, non ignobilis famae philosophus, maxime mirandus est. Cum eum Lysimachus rex capitis damnavisset et crucem minaretur: ''Ista -inquit- horribilia purpuratis tuis minitare. Theodori quidem nihil interest utrum humi an sublimis putescat''. Socrates, cum de animorum immortalitate disputavisset et iam moriendi tempus urgueret, rogatus a Critone quomodo sepeliri vellet, ''Multum operae meae -inquit- frustra consumpsi. Nam Critoni nostro non persuasi me hinc advolaturum neque mei quicquam in terra relicturum. Veruntamen, optime Crito, si mei aliquid adsequi potueris, sepelito ut tibi videbitur. Sed, mihi crede et tibi persuasum habe, nemo vestrum me, cum hinc excessero, consequetur''.

Si deve ammirare moltissimo Teodoro cireneo, filosofo di chiara fama. Dopo che il re Lisimaco lo aveva condannato a morte e minacciava di crociffiggerlo, disse: ''Minaccia queste cose orribili ai tuoi cortigiani. Certamente a Teodoro non interessa niente di marcire in terra o in aria''. Socrate, mentre discuteva dell'immortalità delle anime e incalzando il tempo di morire, richiesto da Critone in che modo volesse esser seppellito, disse: ''Ho consumato invamo molto della mia opera. Infatti non sono riuscito a convincere il nostro Critone che me ne volerò via da qui e che non resterà in terra qualcosa di me. Ma tuttavia, ottimo Critone , se tu potrai ottenere qualcosa di me, seppelliscimi come ti sembrerà opportuno. Ma credi a me e persuaditi, nessuno di voi mi raggiungerà, quando mi sarò allontanato da qui''.

Ad ferendum dolorem placide

Ad ferendum dolorem placide (Autore: Cicerone)


Ad ferendum igitur dolorem placide atque sedate plurimum proficit toto pectore, ut dicitur, cogitare quam id honestum sit. Sumus enim natura, ut ante dixi (dicendum est enim saepius), studiosissimi adpetentissimique honestatis; cuius si quasi lumen aliquod aspeximus, nihil est quod, ut eo potiamur, non parati simus et ferre et perpeti. Ex hoc cursu atque impetu animorum ad aeram laudem atque honestatem illa pericula adeuntur in proeliis; non sentiunt viri fortes in acie vulnera, vel sentiunt, sed mori malunt quam tantum modo de dignitatis gradu demoveri. 59 Fulgentis gladios hostium videbant Decii, cum in aciem eorum inruebant. His levabat omnem vulnerum metum nobilitas mortis et gloria. Nam tam ingemuisse Epaminondam putas, cum una cum sanguine vitam effluere sentiret? Imperantem enim patriam Lacedaemoniis relinquebat, quam acceperat servientem. Haec sunt solacia, haec fomenta summorum dolorum

E allora, al fine di sopportare il dolore in maniera tranquilla e serena, atteggiamento molto utile (giova molto) è pensare-con tutta l'anima, come si suol dire-a quanto ciò sia moralmente nobile. Infatti-come ho già detto, ma è bene ripeterlo spesso-nutriamo, per natura, eccezionale desiderio della nobiltà morale; e se di tale (nobiltà) noi abbiamo intravisto, come dire, un lume, (allora) non c'è alcunché che non siamo pronti a sopportare e ad affrontare per conquistarlo. In virtù di questo slancio dell'anima verso la vera gloria e la nobiltà morale vengono affrontati i pericoli in battaglia; gli uomini forti non soffrono le ferite durante il combattimento; ovvero, le accusano, ma preferiscono la morte al disonore, per quanto lieve. I Decii vedevano le spade nemiche scintillare, quando irrompevano nelle loro schiere; (vedevano) la morte gloriosa stornava loro tutta la paura delle ferite. Del resto, credi che Epaminonda abbia levato eccessivi lamenti, quando sentiva che la vita scivolava via insieme col sangue. Egli infatti restituiva la patria agli Spartani, mentre l'aveva trovata asservita! Queste sono le vere soddisfazioni che leniscono i più grandi dolori!

Accusa a Vatinio

Accusa a Vatinio (Autore: Cicerone)


 Isi tantum modo, Vatini, quid indignitas postularet spectare voluissem, fecissem id quod his vehementer placebat, ut te, cuius testimonium propter turpitudinem vitae sordisque domesticas nullius momenti putaretur, tacitus dimitterem; nemo enim horum aut ita te refutandum ut gravem adversarium aut ita rogandum ut religiosum testem arbitrabatur. sed fui paulo ante intemperantior fortasse quam debui; odio enim tui, in quo etsi omnis propter tuum in me scelus superare debeo, tamen ab omnibus paene vincor, sic sum incitatus ut, cum te non minus contemnerem quam odissem, tamen vexatum potius quam despectum vellem dimittere. qua re ne tibi hunc honorem a me haberi forte mirere, quod interrogem quem nemo congressu, nemo aditu, nemo suffragio, nemo civitate, nemo luce dignum putet, nulla me causa impulisset nisi ut ferocitatem istam tuam comprimerem et audaciam frangerem et loquacitatem paucis meis interrogationibus inretitam retardarem. etenim debuisti, Vatini, etiam si falso venisses in suspicionem P. Sestio, tamen mihi ignoscere, si in tanto hominis de me optime meriti periculo et tempori eius et voluntati parere voluissem. sed (te) hesterno (die) pro testimonio esse mentitum, cum adfirmares nullum tibi omnino cum Albinovano sermonem non modo de Sestio accusando, sed nulla umquam de re fuisse, paulo ante imprudens indicasti, qui et T. Claudium tecum communicasse et a te consilium P. Sesti accusandi petisse, et Albinovanum, quem antea vix tibi notum esse dixisses, domum tuam venisse, multa tecum locutum dixeris, denique contiones P. Sesti scriptas, quas neque nosset neque reperire posset, te Albinovano dedisse easque in hoc iudicio esse recitatas. in quo alterum es confessus, a te accusatores esse instructos et subornatos, in altero inconstantiam tuam cum levitate tum etiam periurio implicatam refellisti, cum, quem a te alienissimum esse dixisses, eum domi tuae fuisse, quem praevaricatorem esse ab initio iudicasses, ei te quos rogasset ad accusandum libros dixeris dedisse.

Se io avessi esclusivamente considerato, Vatinio, il tuo modo di essere tanto spregevole, avrei fatto una cosa che avrebbe mandato in visibilio tutti i presenti: ti avrei lasciato andare senza una parola, te e le tue testimonianze che non valgono niente, inficiate, quali sono, da una vita sporca e sregolata; tra il pubblico, infatti, non ci sarebbe stato nessuno disposto a credere che tu meritassi di venire confutato come un pericoloso avversario o interrogato come il più attendibile dei testi. O forse poco fa non ce l’ho proprio fatta a trattenermi e probabilmente ho anche esagerato; ma io ti odio, Vatinio, e non sono il solo: quanto a sentimenti ostili nei tuoi confronti dovrei battere tutti, perché contro di me hai agito da delinquente, eppure sono tra i tuoi detrattori più tiepidi, quasi tutti ti odiano più di me. E così, visto che in me il disprezzo è pari all’odio, non mi è piaciuta l’idea di vederti andar via tra i fischi e le minacce, senza averti dato una bella lezione. Perciò non ti stupire che io ti conceda l’onore di interrogarti, abbassandomi al livello di chi nessuno reputa degno di un po’ di compagnia, di due parole dette in confidenza, del diritto di voto e di cittadinanza, della luce stessa del sole: non l’avrei mai fatto, niente e nessuno sarebbe riuscito a convincermi se non mi fossi imposto di soffocare questa tua arroganza e di spezzare la tua sfrontatezza, arginando la fiumana delle tue parole con poche mie domande. Ora poniamo il caso che Publio Sestio abbia a torto sospettato di te: tu, però, Vatinio, non puoi assolutamente prendertela con me se in una circostanza tanto critica per un uomo che si è sempre comportato più che bene con me, io ho voluto mettermi in gioco, assecondando il suo volere e cedendo alla difficoltà del momento. Poco fa, senza neanche accorgertene, sei caduto in palese contraddizione, dimostrando così di avere testimoniato il falso quando ieri hai affermato di non aver mai scambiato neppure una parola con Albinovano su nessun argomento, tanto meno sull’accusa di Sestio; hai, infatti, detto che Tito Claudio ti ha cercato e ti ha chiesto un consiglio sulla querela mossa a Publio Sestio; Albinovano, poi, che, stando alla tua precedente testimonianza, tu quasi non conoscevi, si è presentato a casa tua e tu gli hai consegnato copia di quei discorsi di Publio Sestio, introvabili e sconosciuti per lui, che sono stati letti poco fa in questo tribunale. Da una parte, quindi, hai ammesso di esserti procacciato gente senza scrupoli, disposta ad accusare, e di averla corrotta; dall’altra, hai fornito ulteriore prova della tua leggerezza, aggravata per di più da un comportamento superficiale e spergiuro. Come? Raccontando che chi avevi definito un perfetto estraneo, è stato a casa tua; all’inizio del processo lo avevi giudicato un prevaricatore, ma ora si è saputo che gli hai fornito su sua richiesta documenti indispensabili per accusare Sestio.

A volte è meglio non mantenere le promesse

A volte è meglio non mantenere le promesse (Autore: Cicerone; dal libro Ornatus n° 43 pag 82)



Ac ne illa quidem promissa servanda sunt, quae non sunt iis ipsis utilia, quibus illa promiseris. Sol Phaetonti filio, ut redeamus ad fabulas, facturum se esse dixit, quidquid optasset. Optavit, ut in currum patris tolleretur; sublatus est; atque is ante quam constitit ictu fulminis deflagravit; quanto melius fuerat in hoc promissum patris non esse servatum. Quid? quod Theseus exegit promissum a Neptuno? Cui cum tres optationes Neptunus dedisset, optavit interitum Hippolyti filii, cum is patri suspectus esset de noverca; quo optato impetrato, Theseus in maximis fuit luctibus Quid? quod Agamemnon cum devovisset Dianae, quod in suo regno pulcherrimum natum esset illo anno, immolavit Iphigeniam, qua nihil erat eo quidem anno natum pulchrius.Promissum potius non faciendum, quam tam taetrum facinus admittendum fuit

Ma non devono esser mantenute neppure quelle promesse che non sono di utilità a coloro ai quali sono state fatte. Per ritornare ai miti, il Sole disse al figlio Fetonte che avrebbe esaudito qualunque suo desiderio; egli volle salire sul cocchio del padre; vi fu fatto salire. Ma prima di mettersi a sedere fu colpito e bruciato da un fulmine. Quanto sarebbe stato meglio che in questo caso non fosse stata mantenuta la promessa paterna! E che dire della promessa che Teseo pretese da Nettuno? Avendogli Nettuno concesso tre desideri, chiese la morte del figlio Ippolito, poiché questi era stato sospettato dal padre di illecita relazione con la matrigna; ottenuto l'adempimento di questo desiderio, Teseo piombò nel maggiore dei lutti. E che dire di Agamennone? Avendo offerto in voto a Diana quello che di più bello fosse nato nel suo regno in quell'anno, immolò Ifigenia, della quale, almeno in quell'anno, niente era nato di più bello.avrebbe dovuto fare a meno dì promettere, anziché commettere un delitto così infame

A un amico in lutto

A un amico in lutto (autore: Cicerone)


Tibi volo commemorare rem, quae mihi non mediocrem consolationem attulit, si forte eadem res tibi dolorem minuere possit. Ex Asia rediens, cum ab Aegina versus Megaram navigarem, coepi regiones circumcirca prospicere. Post me erat Aegina, ante me Megara, dextra Piraeus, sinistra Corinthus; quae oppida quodam tempore florentissima fuerunt, nunc prostrata et diruta ante oculoss iacent. Coepi ego et mecum cogitare: "Nos homunculi idignamur, si quis nostrum, quorum vita esse debet, interiit aut occisus est, cum uno loco tot oppidorum cadavera proiecta iacent? Visne meminisse te hominem esse natum?". Crede mihi, cogitatione ea non mediocriter sum confirmatus.


A te voglio ricorare una cosa la quale ha arrecato a me una non piccola consolazione, nel caso che la stessa cosa ti possa diminuire il dolore. Quando facevo ritorno dall’Asia, mentre navigavo da Egina alla volta di Megara, cominciaii ad intravedere le regioni tutte intorno. Dietro me c' era Egina, davanti a me Megara, a destra il Pireo, a sinistra Corinto; queste città un tempo furono assai fiorentissime, mentre ora davanti agli occhi sono abbandonate prostrate e distrutte. Io tra me e me (stesso) cominciai pensare: “Noi omuncoli siamo indignatii se qualcuno dei nostri, dei quali deve esistere la vita è morto o è stato ucciso, Allorchè in un luogo solo della città giacciono così tanti cadaveri abbandonati? Vuoi ricordare che tu sei nato uomo?”. Credi a me, fui rassicurato non molto da questa riflessione.

De bello Gallico

Liber I, 2

Cesare


Cesare
1) La vita
2) Le opere
3) De bello Gallico

1) La vita 

Caio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.C., in una famiglia patrizia, la gens Iulia, che vantava di discendere direttamente da Venere attraverso il figlio di Enea, Ascanio, soprannominato Iulo. La parentela di Cesare con Mario, il rivale di Silla, causò da un lato la sua persecuzione da parte dei Sillani, che confiscarono tutti i bene della sua famiglia e lo costrinsero all'esilio, dall'altro il suo schieramento politico dalla parte dei populares, che appunto in Mario avevano il proprio baluardo. Morto Silla nel 78 a.C., Cesare fece ritorno a Roma e iniziò la carriera politica. Dopo esser stato riconosciuto capo del partito dei populares, nel 60 a.C. si accordò con Pompeo e Crasso, per tentare di arginare lo strapotere degli aristocratici, e con loro formò il primo triumvirato. Nominato console per il 59 a.C., ottenne per i cinque anni successivi il proconsolato della Gallia Cisalpina (l'attuale pianura padana) e Narbonese (l'attuale Provenza); qui, grazie alle vittorie ottenute contro le temibili popolazioni limitrofe,che minacciavano i confini della zona da lui protetta, e grazie alla conseguente sottomissione della Gallia, si guadagnò l'appoggio dell'esercito e un'immensa popolarità, fattori che costituirono la base del suo straordinario potere personale.
Questi successi determinarono anche le inquietudini di Pompeo (Crasso era morto nel 53 a.C., combattendo contro i Parti), che, vendendo minacciata la propria posizione di potere, cercò e ottenne l'appoggio dei senatori aristocratici, gli stessi senatori che il triumvirato aveva tentato di combattere e che ora si sentivano parimenti minacciati da Cesare. Così, quando Cesare si propose come console per l'anno successivo a quello del suo ritorno a Roma, Pompeo fece votare una legge -chiaramente diretta contro il rivale- in base alla quale solo chi era personalmente presente in città poteva sostenere la propria candidatura. Dopo il fallimento di varie trattative, Cesare, alla guida delle sue fedeli legioni, decise di attraversare il fiume Rubicone (a sud dell'odierna Ravenna), che segnava un confine non oltrepassabile in armi. Era l'inizio della guerra civile, che vide a Farsàlo la sconfitta di Pompeo e del partito senatorio (48 a.C.) e la successiva affermazione di Cesare come padrone assoluto di Roma. Non era tuttavia un potere destinato a durare; infattti, dopo aver ricoperto con continuità una magistratura straordinaria (la dittatura), il 15 marzo del 44 a.C. Cesare cadde vittima di una congiura di aristocratici nostalgici del regime repubblicano.

2) Le opere

Cesare, oltre che uomo politico, fu anche uno storico di primo piano. Sono conservate le sue due opere principali, i Commentarii de bello Gallico e i Commentarii de bello civili, che hanno per oggetto rispettivamente la campagna in Gallia e la guerra civile con Pompeo. Si trattava propriamente di “appunti” (questo il significato della parola commentarius), contenente i resoconti degli eventi militari e i rapporti al senato, dettati da Cesare ai suoi militari e successivamente rielaborati in forma artistica dallo stesso Cesare. Certo il risultato non è una storia oggettiva: benché Cesare tenti offrire una narrazione il più possibile (tanto che parla di se stesso come di Caesar, e dunque non in prima persona ma in terza), è chiaro che presenti i fatti secondo una visione personale. In ogni caso le due opere rappresentano senza dubbio la fonte più importante per la conoscenza della tormentata storia romana di quegli anni e costituiscono il diario di un condottiero geniale, che con la sua conoscenza politica e militare seppe dare una svolta alla storia del mondo occidentale. Oltre che per il loro prezioso contenuto, i commentari si apprezzano anche per il loro stile, che è conciso e privo di orpelli retorici. Una semplicità, quella di Cesare, che tuttavia nulla toglie alla completezza e all'efficacia drammatica del racconto.

3) De bello Gallico

I sette libri che compongono i Commentarii de bello Gallico, conosciuti anche più semplicemente come De bello Gallico, contengono il racconto della progressiva sottomissione della Gallia da parte di Cesare durante il suo proconsolato, dal 58 a.C. al 52 a.C.; un ottavo libro fu successivamente aggiunto da Aulo Irzio, un luogotenente di Cesare. La narrazione prende le mosse della campagna contro gli Elvezi, la cui migrazione verso nuove sedi, minacciando i confini della provincia romana (l'attuale Provenza), aveva offerto il pretesto per l'inizio della guerra. Si susseguono poi i resoconti di diverse vicende: la lotta contro il capo dei Germani, Ariovisto, che intendeva sottomettere la popolazione della Gallia del nord; la sottomissione delle diverse tribù celtiche; il viaggio in Britannia (Cesare fu il primo romano a sbarcare sull'isola), che era stata ritenuta responsabile dell'invio di aiuti alle popolazioni galliche ribelli; infine la repressione della pericolosa rivolta guidata dal re degli Arverni, Vercingetorige, che si concluse con l'espugnazione della roccaforte di Alesia, baluardo della resistenza gallica, e con la cattura dello stesso Vercingetorige. Nel resoconto delle diverse campagne militari, che portano alla definitiva affermazione romana sul territorio gallico, trovano posto anche le descrizioni degli usi e dei costumi delle popolazioni con le quali Cesare venne successivamente in contatto.  

Alessandro e i prigionieri della Sogdiana

Alessandro e i prigionieri della Sogdiana (Versione numero 21 pag 302 del libro: Corso di lingua latina per il biennio 14-25; autore: Curzio Rufo)

Ex captivis Sogdianorum ad regem triginta nobilissimi perducti erant. Qui, ut per interpretem cognoverunt iussu regis ipsos ad supplicium trahi, carmen laetantium modo canere, tripudiisque et lasciviori corporis motu gaudium quoddam animi ostentare coeperunt. Rex admiratus tanta magnitudine animi oppetere mortem, revocari eos iussit, causam tam effusae laetitiae, cum supplicium ante oculos haberent, requirens. Illi, si ab alio occiderentur, tristes morituros fuisse respondent; nunc a tanto rege, victore omnium gentium, maioribus suis redditos honestam mortem, carminibus sui moris laetitiaque celebrare. Tum rex admiratus magnitudinem animi: "Quaero", inquit, "an vivere velitis non inimici mihi, cuius beneficio victuri estis?" Illi nunquam se inimicos ei fore respondent. Et regi interroganti, quo pignore fidem obligaturi essent, vitam quam acciperent pignori futuram esse dixerunt; reddituros quandoque repetisset. Nec promissum fefellerunt. Nam, qui remissi domos erant nulli Macedonum in regem caritate cesserunt.


Erano stati condotti dal re i trenta uomini più nobili tra i prigionieri tra di Sogdiana. Questi appena vennero a sapere per mezzo dell'interprete che loro stessi venivano portati al supplizio per ordine del re, iniziarono a cantare un canto come di uomini gioiosi e a mostrare una certa allegria dell'animo con balli e con il movimento licenzioso del corpo. Il re, meravigliandosi che affrontassero la morte con tanta grandezza d'animo, ordinò che quelli venissero richiamati, per chiedere il motivo di tanta eccessiva gioia, pur avendo il supplizio davanti agli occhi. Quelli risposero che, se fossero stati uccisi da un altro, sarebbero morti tristi, ma adesso, restituiti ai loro avi da un così grande re, vincitore di tutte le genti, celebravano l'onesta morte con canti e gioia. Così il re, meravigliandosi della grandezza d'animo disse:" chiedo se vogliate vivere come miei amici (lett. non nemici a me)". Quelli risposero che mai sarebbero stati suoi nemici. E, al re che chiedeva riguardo con quale pegno avrebbero garantito la fiducia, dissero che il pegno sarebbe stato la vita e, quando l'avesse richiesta, gliel'avrebbero restituita. E non  ingannarono la promessa. Infatti coloro che erano stati rimandati a casa non furono inferiori a nessuno dei Macedoni nella carità al re.

Confusione dopo la battaglia di Mantinea

Confusione dopo la battaglia di Mantinea. Senofonte (versione 7 pagina 349 dal libro I Greci la lingua e la cultura 2)

Compiute queste cose, era accaduto il contrario di quello che tutti gli uomini credevano che sarebbe accaduto. Infatti essendosi riunita quasi tutta la Grecia ed essendosi schierata, non c'era nessuno che non credeva che, se ci fosse stata battaglia, i vincitori avrebbero governato mentre i vinti sarebbero stati sottomessi; il Dio fece in modo che da una parte entrambi innalzassero un trofeo come se avessero vinto, dall'altra nessuno dei due ostacolasse coloro che lo innalzavano, da un altra ancora che entrambi, protetti da un accordo, restituissero i cadaveri come se avessero vinto, dall'altra ancora che entrambi li riprendessero, protetti da un accordo, come se fossero stati vinti, e che, (pur) dicendo ciascuno dei due di aver vinto, fosse palese che nessuno dei due aveva niente di  più sia rispetto al territorio sia rispetto alla città sia rispetto al comando (di quanto avessero) prima che ci fosse la battaglia; in tutta la Grecia inoltre dopo la battaglia confusione e disordine divennero ancora maggiori rispetto a prima.

domenica 27 maggio 2012

La vita ritirata è la vera libertà 1-3,6-7

"La vita ritirata è la vera libertà"     da Seneca , Ep. 8,1-3;6-7


 'Tu me' inquis 'vitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum? ubi illa praecepta vestra quae imperant in actu mori?' Quid? ego tibi videor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem. Nullus mihi per otium dies exit; partem noctium studiis vindico; non vaco somno sed succumbo, et oculos vigilia fatigatos cadentesque in opere detineo. Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo; salutares admonitiones,velut medicamentorum utilium compositiones, litteris mando, esse illas efficaces in meis ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt.  Rectum iter, quod sero cognovi et lassus errando, aliis monstro .(…)  Si haec mecum, si haec cum posteris loquor, non videor tibi plus prodesse quam cum ad vadimonium advocatus descenderem aut tabulis testamenti anulum imprimerem aut in senatu candidato vocem et manum commodarem? Mihi crede, qui nihil agere videntur maiora agunt: humana divinaque simul tractant.  Sed iam finis faciendus est et aliquid, ut institui, pro hac epistula dependendum. Id non de meo fiet: adhuc Epicurum compilamus, cuius hanc vocem hodierno die legi: 'philosophiae servias oportet, ut tibi contingat vera libertas'. Non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statim circumagitur; hoc enim ipsum philosophiae servire libertas est.
"Tu mi esorti a evitare la folla," scrivi, "e a starmene per conto mio, pago della mia coscienza? Che fine hanno fatto dunque i precetti della vostra filosofia che impongono di essere vigili fino alla morte?" Ma come? Credi che io ti inviti all'inerzia? Io mi sono appartato e ho sbarrato le porte per essere utile a molta gente. Non trascorro mai la giornata in ozio: parte della notte la dedico allo studio; non mi abbandono al sonno, vi soccombo e costringo al lavoro gli occhi che si chiudono stanchi per la veglia. Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto dagli impegni e prima di tutto dai miei impegni personali: sono al servizio dei posteri. Scrivo cose che possano servire loro; affido alle mie pagine consigli salutari, come se fossero ricette di medicamenti utili; ne ho sperimentata l'efficacia sulle mie ferite che non sono guarite completamente, ma almeno non si sono diffuse. Mostro agli altri la via giusta: io l'ho conosciuta tardi e stanco del lungo errare. Mi dico queste cose stesso, le dico ai posteri; e non mi rendo più utile secondo te che se mi presentassi come difensore in giudizio o imprimessi il sigillo ai testamenti o mettessi gesto e voce a servizio di un candidato senatoriale? Credimi, fa di più chi sembra che non faccia niente: si cura nello stesso tempo delle faccende divine e di quelle umane.
Ma ormai è tempo di concludere e, come stabilito, devo pagare il mio tributo per questa lettera. Non è farina del mio sacco: ancora una volta riprendo Epicuro; oggi ho letto queste sue parole: "Consacrati alla filosofia, se vuoi essere veramente libero." Chi si sottomette e si affida a essa, non deve aspettare: è libero subito; infatti questo stesso servire la filosofia è libertà

A un amico

A un amico (Autore: Cicerone)


Accepi a te aliquot epistulas uno tempore, quas tu diversis temporibus dederas: in quibus me cetera delectarunt; significabant enim te istam militiam iam firmo animo ferre et esse fortem virum et constantem; quae ego paullisper in te ita desideravi, non imbecillitate animi tui, sed magis ut desiderio nostri te aestuare putarem. Quare perge, ut coepisti; forti animo istam tolera militiam: multa, mihi crede, assequere; ego enim renovabo commendationem, sed tempore. Sic habeto, non tibi maiori esse curae, ut iste tuus a me discessus quam fructuosissimus tibi sit, quam mihi; itaque, quoniam vestrae cautiones infirmae sunt, Graeculam tibi misi cautionem chirographi mei.

Ricevetti da te contemporaneamente alcune lettere,che tu avevi spedito in diversi tempi. In esse le altre cose mi dilettano: esse annunciano infatti che tu guidavi codesto esercito e che eri uomo forte e costante; che io ricercai per un po’ in te non come debolezza del tuo animo ma più come desidererei che tu bruciassi per il tuo desiderio: sopporta lo stesso servizio militare con animo forte. Credimi, comprendi molte cose; io infatti rifarò la raccomandazione ma a tempo debito. Pertanto poiché le vostre azioni sono di poco peso ti mandai un’obbligazioncella autografa in greco.

A Terenzia e a Tullia

A Terenzia e a Tullia (Autore: Cicerone)

Tullius S.D. Terentiae et Tulliae et Ciceroni suis. Ego minus saepe do ad vos litteras, quam possum, propterea quod cum omnia mihi tempora sunt misera, tum vero, cum aut scribo ad vos aut vestras lego, conficior lacrimis sic, ut ferre non possim. Quod utinam minus vitae cupidi fuissemus! certe nihil aut non multum in vita mali vidissemus. Quod si nos ad aliquam alicuius commodi aliquando recuperandi spem fortuna reservavit, minus est erratum a nobis; si haec mala fixa sunt, ego vero te quam primum, mea vita, cupio videre et in tuo complexu emori, quoniam neque dii, quos tu castissime coluisti, neque homines, quibus ego semper servivi, nobis gratiam rettulerunt. […] Brundisio profecti sumus a. d. II K. Mai.: per Macedoniam Cyzicum petebamus. O me perditum, o afflictum! Quid nunc rogem te ut venias, mulierem aegram et corpore et animo confectam? Non rogem? Sine te igitur sim? Opinor, sic agam: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves; sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes ad me fac venias. Unum hoc scito: si te habebo, non mihi videbor plane perisse. Sed quid Tulliola mea fiet? iam id vos videte: mihi deest consilium. Sed certe, quoquo modo se res habebit, illius misellae et matrimonio et famae serviendum est. Quid? Cicero meus quid aget? iste vero sit in sinu semper et complexu meo. Non queo plura iam scribere: impedit maeror. Tu quid egeris, nescio: utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliata. Pr. K. Mai. Brundisio.


Tullio saluta i suoi cari Terrenzia, Tullia e Cicerone.
Io vi mando delle lettere meno spesso di quanto potrei soprattutto perché sia tutti i momenti sono per me infelici, sia, quando o vi scrivo o leggo le vostre lettere, sono vinto dalle lacrime tanto che non riesco a sopportarlo. Oh, se fossi stato meno desideroso di vivere! Certamente non avrei visto niente di male o non molto nella vita. Per ciò se la sorte mi ha riservato qualche speranza di riacquistare un giorno qualche bene meno si è sbagliato da parte nostra; se questi mali sono definitivi io allora desidero vederti quanto prima, vita mia, e morire tra le tue braccia, poiché né gli dei che tu hai venerato religiosamente, né gli uomini, ai quali io ho sempre servito, ci sono stati riconoscenti. Partiamo da Brindisi il 30 aprile, ci dirigiamo a Cizico attraverso la Macedonia. O me perduto, o me afflitto! Che cosa ora dovrei chiederti di venire, donna malata e sfinita sia nel corpo che nello spirito? Non dovrei chiedertelo? Dovrei dunque stare senza di te? Penso di fare così: se c’è la speranza di un mio ritorno rafforzala e asseconda la vicenda, se invece, come io temo, è finita, in qualunque modo puoi fai in modo di venire da me. Sappi solo questo: se ti avrò non mi sembrerà di essere perduto del tutto. Ma che ne sarà della mia piccola Tullia? Ormai a questo provvedete voi; io sono incapace di decidere. Ma certamente, in qualunque modo andrà la cosa, occorre prendersi cura sia del matrimonio sia della reputazione di quella poveretta. A che scopo? Che cosa farà il mio Cicerone? Potesse davvero stare sempre nel petto e nel mio abbraccio. Ormai non posso scrivere più; il dolore me lo impedisce. Non so che cosa tu abbia fatto: se possiedi ancora qualcosa o se, come temo (lett. Cosa che temo), tu ne sia spogliata completamente.
Da Brindisi. Il 30 aprile.

A Roma fu sempre apprezzata la filosofia

A Roma fu sempre apprezzata la filosofia (Autore: Cicerone; dal libro: Latina Lectio pag 491 n°499)



Nam et referta quondam Italia Pythagoreorum fuit tum cum erat in haec gente magna illa Graecia; -ex quo etiam quidam Numam Pompilium regem nostrum fuisse Pythagoreum ferunt, qui annis ante permultis fuit quam ipse Pythagoras; quo etiam maior vir habendus est, cum illam sapientiam constituendae civitatis duobus prope saeculis ante cognovit, quam eam Graeci natam esse senserunt; - et certe non tulit ullos haec civitas aut gloria clariores aut auctoritate graviores aut humanitate politiores P. Africano C. Laelio L. Furio, qui secum eruditissimos homines ex Graecia palam semper habuerunt. Atque ego hoc ex iis saepe audivi, cum dicerent pergratum Athenienses et sibi fecisse et multis principibus civitatis, quod, cum ad senatum legatos de suis rebus maxumis mitterent, tres illius aetatis nobilissimos philosophos misissent Carneadem et Critolaum et Diogenem.


Una volta l’Italia era piena di pitagorici, ai tempi in cui parte di essa era la famosa Magna Grecia; tanto che alcuni asseriscono che anche il nostro re Numa Pompilio, vissuto moltissimi anni prima dello stesso Pitagora, fosse pitagorico. Ragion per cui la sua grandezza è da reputare ancora maggiore, dato che egli possedette la scienza politica circa due secoli prima che i Greci si accorgessero che essa esisteva. È inoltre assodato che la nostra città non ha prodotto uomini di gloria più splendida, di prestigio più insigne, di cultura più raffinata di Publio Africano, Gaio Lelio, Lucio Furio, che si circondarono sempre, apertamente, dei Greci più colti. lo stesso li ho spesso sentiti dichiarare che gli Ateniesi avevano fatto cosa graditissima a loro e a molti altri maggiorenti inviando come ambasciatori presso il senato, per trattare questioni di suprema importanza per Atene, i tre più illustri filosofi di quel tempo, Carneade, Critolao e Diogene.

A età diverse doveri diversi

A età diverse doveri diversi (Autore: Cicerone; dal libro Cotidie Legere n° 12 pagina 230)



Et quoniam officia non eadem disparibus aetatibus tribuuntur aliaque sunt iuvenum, alia seniorum, aliquid etiam de hac distinctione dicendum est. Est igitur adulescentis maiores natu vereri exque iis deligere optimos et probatissimos, quorum consilio atque auctoritate nitatur; ineuntis enim aetatis inscitia senum constituenda et regenda prudentia est. Maxime autem haec aetas a libidinibus arcenda est exercendaque in labore patientiaque et animi et corporis, ut eorum et in bellicis et in civilibus officiis vigeat industria. Atque etiam cum relaxare animos et dare se iucunditati volent, caveant intemperantiam, meminerint verecundiae, quod erit facilius, si in eiusmodi quidem rebus maiores natu nolent interesse. Senibus autem labores corporis minuendi, exercitationes animi etiam augendae videntur, danda vero opera, ut et amicos et iuventutem et maxime rem publicam consilio et prudentia quam plurimum adiuvent.


E ancora le età diverse non hanno gli stessi doveri: altri sono i doveri dei giovani, altri quelli dei vecchi. A proposito di questa distinzione conviene perciò dire qualche cosa. E' dovere del giovane rispettare gli anziani, scegliendo tra essi i più specchiati e stimati, per appoggiarsi al loro autorevole consiglio; perché l'inesperienza giovanile ha bisogno di essere sorretta e guidata dalla saggezza dei vecchi. E soprattutto bisogna tener lontani i giovani dai piaceri sensuali, ed esercitarli nel tollerare le fatiche e i travagli dell'animo e del corpo, sì che possano adempiere con vigorosa energia i loro doveri militari e civili. E anche quando vorranno allentare lo spirito e abbandonarsi alla letizia, si guardino dall'intemperanza e si ricordino del pudore; cosa che riuscirà loro tanto più facile se non impediranno che a ricreazioni di tal genere assistano gli anziani.Quanto ai vecchi, essi dovranno diminuire le fatiche del corpo e aumentare gli esercizi della mente; e dovranno impegnarsi ad aiutare con consigli e saggezza quanto più è possibile gli amici, la gioventù e, soprattutto, la patria.

La vita è breve

La vita è breve (Autore: Cicerone ;Versione dal Libro: Littera litterae 2D pag.165n.3)



Theophrastus moriens accusasse naturam dicitur, quod cervis et cornicibus vitam diuturnam, quorum id nihil interesset, hominibus, quorum maxime interfuisset, tam exiguam vitam dedisset; quorum si aetas potuisset esse longinquior, futurum fuisse ut omnibus perfectis artibus omni doctrina hominum vita erudiretur. Querebatur igitur se tum, cum illa videre coepisset, extingui. Quid? ex ceteris philosophis nonne optumus et gravissumus quisque confitetur multa se ignorare et multa sibi etiam atque etiam esse discenda?


Di Teofrasto, si racconta che in punto di morte rimproverava alla natura di aver dato una vita tanto lunga ai cervi e alle cornacchie, che non se ne fanno niente, e di aver concesso invece così poco agli uomini, per cui la cosa sarebbe stata tanto importante: perché, con un tempo più lungo a loro disposizione, gli uomini avrebbero potuto raggiungere la perfezione in tutte le scienze, e rendersi padroni di ogni campo del sapere. Egli si lagnava, perciò, di dover morire proprio quando aveva appena incominciato a farsi luce. E comunque, anche fra gli altri filosofi, tutti i più grandi e più autorevoli riconoscono di non sapere molte cose, e di averne sempre un'infinità da imparare.

La morte dei vecchi è secondo natura

La morte dei vecchi è secondo natura(Autore: Cicerone; Versione dal libro Latina Lectio pagina 341)

Quod cuique tempus ad vivendum datur, eo debemus esse contenti. Breve enim tempus aetatis satis longum est ad bene honesteque vivendum. Sin autem processeris longius, non magis dolendum est quam agricolae dolent, praeterita verni temporis suavitate aestatem autumnumque venisse. Omnia vero quae secundum naturam fiunt in bonis habenda sunt. Quid est autem tam secundum naturam quam senibus emori? Idem autem, si adulescentibus contingit, adversante et repugnante natura videtur accidere. Itaque adulescentes mihi mori sic videntur, ut cum aquae multitudine flammae vis opprimitur; senes autem sic (mori videntur), sicut sua sponte, nulla adhibita vi, consumptus ignis exstinguitur; et quasi poma ex arboribus, cruda si sunt, vix evelluntur, si matura et cocta, decidunt, sic vitam adulescentibus vis aufert, senibus maturitas. Vivendi finis est optimus, quum, integra mente certisque sensibus, opus ipsa suum eadem, quae coagmentavit, natura dissolvit; ut navem, ut aedificium idem destruit facillime, qui construxit, sic hominem eadem optime, quae conglutinavit, natura dissolvit.


Poiché ad ognuno è dato del tempo per vivere, dobbiamo essere felici di ciò. Infatti il breve tempo della vita è abbastanza lungo per vivere bene e onestamente. Se invece sarai avanzato più oltre in età, non bisogna dolersene più di quanto i contadini si dolgono che, trascorsa la dolcezza della primavera, è giunta l'estate e l'autunno. In verità tutte le cose che accadono secondo natura devono essere annoverate fra i beni. D'altra parte, per i vecchi, cosa c'è tanto secondo natura quanto il morire? La stessa cosa, poi, se capita ai giovani, sembra accadere con l'opposizione e la resistenza della natura. E così i giovani mi sembra che muoiano così come quando la forza della fiamma viene schiacciata dalla moltitudine dell'acqua; i vecchi, invece, (mi sembra che muoiano) così come un fuoco consumato, non ricorrendo ad alcuna forza, spontaneamente si spegne; e come le mele vengono strappate a fatica dagli alberi, se sono acerbe, e invece cadono se sono mature al punto giusto, così la forza strappa la vita ai giovani, la maturità ai vecchi. La migliore conclusione del vivere è quando, con la mente e gli altri sensi integri, la natura stessa dissolve la sua opera che ha formato; come una nave, come un edificio, lo stesso che li ha costruiti li distrugge più facilmente, così la natura stessa, che ha ottimamente combinato quel complesso di elementi che è l'uomo, lo dissolve.

L'amicizia proverbiale tra Lelio e Scipione

L'amicizia proverbiale tra Lelio e Scipione. Versione di Cicerone dal libro: Test di latino

De ipsius Laeli et Scipionis ingenio quamquam ea est fama, ut plurimum tribuatur ambobus, dicendi tamen laus est in Laelio inlustrior. at oratio Laeli de collegiis non melior quam de multis quam voles Scipionis; non quo illa Laeli quicquam sit dulcius aut quo de religione dici possit augustius, sed multo tamen vetustior et horridior ille quam Scipio; et, cum sint in dicendo variae voluntates, delectari mihi magis antiquitate videtur et lubenter verbis etiam uti paulo magis priscis Laelius.;Sed est mos hominum, ut nolint eundem pluribus rebus excellere. nam ut ex bellica laude aspirare ad Africanum nemo potest, in qua ipsa egregium Viriathi bello reperimus fuisse Laelium: sic ingeni litterarum eloquentiae sapientiae denique etsi utrique primas, priores tamen libenter deferunt Laelio. nec mihi ceterorum iudicio solum videtur, sed etiam ipsorum inter ipsos concessu ita tributum fuisse.


Per ciò che riguarda l'ingegno di Lelio e di Scipione, sebbene tale ne sia la fama, che ambedue godo no di un altissimo apprezzamento, nell'eloquenza è tuttavia più insigne la reputazione di Lelio. Eppure l'orazione di Lelio sui collegi non è migliore di una qualsiasi tra le molte di Scipione; non perché vi sia qualcosa di più gradevole di quel celebre discorso di Lelio, o perché della religione si possa parlare in termini più augusti; tuttavia egli è molto più vetusto e ruvido di Scipione; e, poiché nell'eloquenza le inclinazioni sono varie, a me pare che Lelio si compiaccia maggiormente di una maniera antiquata, e che volentieri faccia anche ricorso a vocaboli notevolmente più arcaici.Ma è costume della gente di non voler riconoscere, a una medesima persona, l'eccellenza in più campi. Come infatti nessuno può pretendere di accostarsi all'Africano per gloria di imprese belliche, nelle quali pure sappiamo che Lelio si distinse egregiamente nella guerra contro Viriato; così, per ciò che riguarda l'ingegno, la cultura letteraria, l'eloquenza, e infine la sapienza, sebbene ad ambedue si attribuisca una posizione di primo piano, il primato tra i due lo si assegna volentieri a Lelio. E a me pare che un tal mo do di valutare non fosse proprio solo del giudizio degli altri, ma derivasse anche da una loro reciproca concessione

Accorto stratagemma di Scipione

Versione di latino dell'Autore: Valerio Massimo (di questa versione abbiamo una variante, la prima versione riportata è quella presa dal libro: Nuovo Comprendere e Tradurre vol. 3, la seconda è una versione con lo stesso titolo ma testo diverso)



Scipio Romam rediit et ante legitimam aetatem consul factus est. Ei Sicilia provincia decreta est, permissumque (est) ut in Africam inde traiceret. Qui, cum vellet ex fortissimis peditibus Romanis trecentorum equitum numerum compler, nec posset illos statim armis et equis instruere, id prudenti consilio perfecit. Trecentos iuvenes, ex omni Sicilia nobilissimos et ditissimos, elegit, velut eos ad oppugnandam Carthaginem secum ducturus,eosque iussit celeriter arma et equos parare.

Scipione tornò a Roma e fu eletto console prima della legittima età. A lui fu assegnata la Sicilia come provincia, e gli fu permesso che da lì passasse in Africa. E quello, volendo completare il numero di 800 cavalieri tra i più forti fanti dei Romani e non potendo fornire subito quelli di armi e cavalli portò a termine ciò mediante un accorto piano. Scelse 300 giovani tra i più nobili della Sicilia come se avesse intenzione di condurli con sé ad assediare Cartagine.

Altra versione con stesso titolo ma testo diverso:

Scipio Romam rediit et ante legitimam aetatem consul factus est. Ei Sicilia provincia decreta est, permissumque (est) ut in Africam inde traiceret. Qui, cum vellet ex fortissimis peditibus Romanis trecentorum equitum numerum complere, nec posset illos statim armis et equis instruereI, id prudenti consilio perfecit. Trecentos iuvenes, ex omni Sicilia nobilissimos et ditissimos, elegit, velut (= «come se») eos ad oppugnandam Carthaginem secum ducturus,eosque iussit celeriter arma et equos parare. Edicto imperatoris paruerunt iuvenes, sed ne longinquum et grave bellum esset timebant. Tunc Scipio remisit illis (= «li esonerò da...») istam expeditionem, si arma et equos mi Romanis vellent tradere. Laeti condicionem acceperunt iuvenes Siculi. Ita Scipio sine publica impensa s struxit equites.

Scipione ritornò a Roma e prima dell'età legittima fu fatto console.gli fu assegnata la provincia di Sicilia e gli fu permesso di trasferirsi da li oltre l'Africa.E questo,volendo tra i fortissimi cavallieri romani che completassero il numero dei trecento e non potendo fornire quelli di armi ,finì un consiglio.elesse trecento giovani tra i più nobili e i più ricchi di tutta la Sicilia come se avesse voluto portarli con se ad espugnare Cartagine e ordinò loro di preparare armi e cavalli.Con un editto degli imperatori i giovani obbedirono ma temevano che fosse una grave guerra,Allora Scipione li esonerl da codesta spedizione essi vogliono portar via le armi e i cavalli ai soldati Romani,i sereni giovani siciliani accettarono la condizione.così Scipione istruì i suoi cavallieri senza lo Stato.


sabato 26 maggio 2012

De Bello Gallico, Liber I, 6

Cesare, De Bello Gallico, Liber I, 6

Erant omnino itinera duo, quibus itineribus domo exire possent: unum per Sequanos, angustum et difficile, inter montem Iuram et flumen Rhodanum, vix qua singuli carri ducerentur, mons autem altissimus impendebat, ut facile perpauci prohibere possent; alterum per provinciam nostram, multo facilius atque expeditius, propterea quod inter fines Helvetiorum et Allobrogum, qui nuper pacati erant, Rhodanus fluit isque non nullis locis vado transitur. Extremum oppidum Allobrogum est proximumque Helvetiorum finibus Genava. Ex eo oppido pons ad Helvetios pertinet. Allobrogibus sese vel persuasuros, quod nondum bono animo in populum Romanum viderentur, existimabant vel vi coacturos ut per suos fines eos ire paterentur. Omnibus rebus ad profectionem comparatis diem dicunt, qua die ad ripam Rhodani omnes conveniant. Is dies erat a. d. V. Kal. Apr. L. Pisone, A. Gabinio consulibus.


Solo due erano le strade che gli Elvezi potevano percorrere per uscire di patria: o attraverso i Sequani, strada angusta e difficile fra i monti del Giura e il fiume Rodano, dove i carri potevano a mala pena procedere in fila per uno, e dominata da cime altissime, cosicchè bastavano ben pochi uomini a impedire il passaggio; oppure attraverso la nostra provincia, assai più agevole e spiccia perchè fra il territorio degli Elvezi e degli Allobrogi, questi ultimi ridotti alla pace da poco, scorre il Rodano, guadabile in più punti. Ultima città degli Allobrogi, e vicinissima agli Elvezi, è Ginevra. Di lì un ponte raggiunge gli Elvezi, e questi ritenevano di poter convincere gli Allobrogi, poichè non sembravano ancora così inclini verso i Romani, o di poterli forzare a concedere loro il passaggio per il proprio territorio. Quando tutto è pronto per la partenza, fissano il giorno per l’adunata generale sulle sponde del Rodano. Era il 28 marzo del consolato di Lucio Pisone e Aulo Gabino.

De Bello Gallico, Liber I, 5

Cesare, DeBello Gallico, Liber I, 5

Post eiusmortem nihilo minus Helvetii id quod constituerant facere conantur,ut e finibus suis exeant. Ubi iam se ad eam rem paratos essearbitrati sunt, oppida sua omnia, numero ad duodecim, vicos adquadringentos, reliqua privata aedificia incendunt; frumentum omne,praeter quod secum portaturi erant, comburunt, ut domum reditionisspe sublata paratiores ad omnia pericula subeunda essent; triummensum molita cibaria sibi quemque domo efferre iubent. PersuadentRauracis et Tulingis et Latobrigis finitimis, uti eodem usi consiliooppidis suis vicisque exustis una cum iis proficiscantur, Boiosque,qui trans Rhenum incoluerant et in agrum Noricum transierantNoreiamque oppugnabant, receptos ad se socios sibi adsciscunt.

Dopo e nonostantela sua morte gli Elvezi persistono nella decisione di emigrare.Quando si ritengono pronti all’impresa, appiccano il fuoco a tuttele loro città, che erano una dozzina, ai villaggi, una quarantina, eai casolari isolati; ardono tutto il grano che non avrebbero portatocon sè, perchè senza più il miraggio di tornare in patria fosseromeglio disposti ad affrontare qualsiasi pericolo, e ordinano checiascuno porti via da casa per sè farina sufficiente a tre mesi.Convincono i loro confinanti Rauraci, Tulingi e Latobrigi a prenderela medesima decisione e a partire con loro dopo aver bruciato cittàe villaggi; anche i Boi, passati dai propri insediamenti oltre Renoal territorio del Norico e intenti a espugnare Noreia, vengonassociati all’impresa.

De Bello Gallico, Liber I, 4

Cesare, De Bello Gallico, Liber I, 4

Ea res est Helvetiis per indicium enuntiata. Moribus suis Orgetoricem ex vinculis causam dicere coegerunt; damnatum poenam sequi oportebat, ut igni cremaretur. Die constituta causae dictionis Orgetorix ad iudicium omnem suam familiam, ad hominum milia decem, undique coegit, et omnes clientes obaeratosque suos, quorum magnum numerum habebat, eodem conduxit; per eos ne causam diceret se eripuit. Cum civitas ob eam rem incitata armis ius suum exequi conaretur multitudinemque hominum ex agris magistratus cogerent, Orgetorix mortuus est; neque abest suspicio, ut Helvetii arbitrantur, quin ipse sibi mortem consciverit.

La trama viene svelata agli Elvezi da una delazione. Secondo la loro usanza, Orgetorige fu costretto a difendersi in catene; in caso di condanna lo apettava per punizione il rogo. Nel giorno fissato per il dibattimento Orgetorige fece affluire sul posto tutta la sua servitù – circa diecimila uomini – e tutti i suoi dipendenti e debitori, un bel numero di persone; col loro appoggio si sottrasse alla necessità di difendersi. Mentre la gente, irritata, cercava d’imporre il proprio diritto con le armi e i magistrati andavano radunando uomini dalla campagna, Orgrtorige morì; e c’è il spspetto , secondo gli Elvezi, che si sia suicidato.

De Bello Gallico, Liber I, 3

Cesare, De Bello Gallico, Liber I, 3

His rebus adducti et auctoritate Orgetorigis permoti constituerunt ea quae ad proficiscendum pertinerent comparare, iumentorum et carrorum quam maximum numerum coemere, sementes quam maximas facere, ut in itinere copia frumenti suppeteret, cum proximis civitatibus pacem et amicitiam confirmare. Ad eas res conficiendas biennium sibi satis esse duxerunt; in tertium annum profectionem lege confirmant. Ad eas res conficiendas Orgetorix deligitur. Is sibi legationem ad civitates suscipit. In eo itinere persuadet Castico, Catamantaloedis filio, Sequano, cuius pater regnum in Sequanis multos annos obtinuerat et a senatu populi Romani amicus appellatus erat, ut regnum in civitate sua occuparet, quod pater ante habuerit; itemque Dumnorigi Haeduo, fratri Diviciaci, qui eo tempore principatum in civitate obtinebat ac maxime plebi acceptus erat, ut idem conaretur persuadet eique filiam suam in matrimonium dat. Perfacile factu esse illis probat conata perficere, propterea quod ipse suae civitatis imperium obtenturus esset: non esse dubium quin totius Galliae plurimum Helvetii possent; se suis copiis suoque exercitu illis regna conciliaturum confirmat. Hac oratione adducti inter se fidem et ius iurandum dant et regno occupato per tres potentissimos ac firmissimos populos totius Galliae sese potiri posse sperant.

Spinti da questi motivi e scossi dall’autorità di Orgertorige, stabilirono di predisporre l’occorrente alla partenza, adunare il maggior numero di bestie da soma e di carriaggi che si potesse acquistare, eseguire il massimo delle semine per non mancare di grano durante il viaggio, stabilire una pace amichevole con le nazioni limitrofe. Per compiere questi preparativi giudicarono sufficiente un bienno, e al terzo anno fissano la legge per la partenza. A realizzarli viene scelto Orgetorige. Questi nel corso delle ambascerie che compì presso varie nazioni convince Castico figlio di Catamantalede – un Sequano il cui padre aveva dominato per molti anni sul suo popolo ed era stato proclamato dal Senato amico del popolo romano – a prendere il potere fra i suoi connazionali come suo padre prima di lui; altrettanto fa con l’eduo Dumnorige, fratello di Diviciaco allora principe della sua nazione, e molto popolare, inducendolo a compiere un tentativo analogo e concedergli in moglie la propria figlia. Dimostra a entrambi l’estrema facilità dell’impresa, poichè anch’egli avrebbe ottenuto il dominio della propria nazione: ed essendo fuor di dubbio che gli Elvezi fossero il popolo più potente di tutta la Gallia, garantisce che con le sue risorse e il suo esercito egli avrebbe procurato loro il trono. Questo discorso li induce a giurare lealtà reciproca, e confidano che una volta raggiunto il potere, con quei tre popoli così forti e saldi potranno divenire padroni della Gallia intera.

De Bello Gallico, Liber I, 2

Cesare, De Bello Gallico, Liber I, 2

Apud Helvetios longe nobilissimus fuit et ditissimus Orgetorix. Is M. Messala, [et P.] M. Pisone consulibus regni cupiditate inductus coniurationem nobilitatis fecit et civitati persuasit ut de finibus suis cum omnibus copiis exirent: perfacile esse, cum virtute omnibus praestarent, totius Galliae imperio potiri. Id hoc facilius iis persuasit, quod undique loci natura Helvetii continentur: una ex parte flumine Rheno latissimo atque altissimo, qui agrum Helvetium a Germanis dividit; altera ex parte monte Iura altissimo, qui est inter Sequanos et Helvetios; tertia lacu Lemanno et flumine Rhodano, qui provinciam nostram ab Helvetiis dividit. His rebus fiebat ut et minus late vagarentur et minus facile finitimis bellum inferre possent; qua ex parte homines bellandi cupidi magno dolore adficiebantur. Pro multitudine autem hominum et pro gloria belli atque fortitudinis angustos se fines habere arbitrabantur, qui in longitudinem milia passuum CCXL, in latitudinem CLXXX patebant.

Tra gli Elvezi primeggiò, e di molto, per nobiltà e ricchezze Orgetorige. Nell’anno del consolato di Marco Messala e Marco Pisone egli fu spinto dalla brama di potere a ordire una congiura di nobili e persuase i suoi compratrioti a uscire dal proprio territorio con tutti gli averi: per loro, primi fra tutti in valore, impadronirsi dell’intera Gallia e dominarla sarebbe stato facilissimo. Gli riuscì tanto più facilmente convincerli perchè gli Elvezi sono premuti da ogni parte dalla natura. Da un lato il fiume Reno divide col suo corso molto ampio e profondo il loro paese dai Germani, da un altro le altissime cime del Giura si frappongono tra Sequani ed Elvezi, da un terzo il lago Lemano e il fiume Rodano delimitano dalla loro parte la nostra provincia. Perciò riuscivano solo a compiere brevi sconfinamenti ed era per loro difficile muovere una vera guerra ai vicini, con grave sofferenza di una stirpe avida di combattere. In rapporto poi al numero della popolazione e alle gloriose tradizioni militari ritenevano di avere confini troppo angusti: una superficie di duecentoquaranta miglia in lunghezza e centottanta in larghezza.

De Bello Gallico, Liber I, 1

Cesare, De Bello Gallico, Liber I, 1

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.


La Gallia nel suo complesso è divisa in tre parti: una è abitata dai Belgi, una dagli Aquitani, la terza da quelli che nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli. Tutte queste popolazioni differiscono tra loro nella lingua, nelle istituzioni e nelle leggi. Divide i Galli dagli Aquitani il fiume Garonnna, dai Belgi la Marna e la Senna. Di tutti questi i più valorosi sono i Belgi, perché sono i più lontani dalla raffinatezza e dalla civiltà della provincia, e molto raramente i mercanti si recano da loro a portarvi quei prodotti che servono ad effeminari gli animi, e sono i più vicini ai Germani che abitano oltre Reno, con i quali sono ininterrottamente in guerra. Questa è la ragione per cui anche gli Elvezi superano nel valore gli altri Galli, perché quasi ogni giorno combattono contro i Germani, o tenendoli fuori dal proprio paese o portando essi la guerra nel loro paese. Quella parte che, come ho detto, è abitata dai Galli, inizia dal fiume Rodano; è delimitata dal fiume Garonna, dall’Oceano, dal paese dei Belgi; dalla parte dei Sequani e degli Elvezi tocca anche il fiume Reno; si stende verso settentrione. Il paese dei Belgi comincia dalla parte estrema della Gallia; tocca il corso inferiore del fiume Reno, si stende verso settentrione e oriente. L’Aquitania dal fiume Garonna si stende fino a toccare i monti Pirenei e quella parte dell’Oceano che volge verso la Spagna; si stende tra occidente e settentrione.

Sintesi del Capitolo XXVII dei Promessi Sposi

Appena Renzo esce dal lazzaretto, cominciano a cadere goccioloni "radi e impetuosi", che si trasformano ben presto in una pioggia battente. Il giovane ci sguazza felice, camminando senza preoccuparsi di come o dove passerà la notte: tutto preso dal pensiero che Lucia è ormai sua, rievoca l'angoscia con la quale aveva percorso la medesima strada il giorno prima, lo sconforto della ricerca tra i convalescenti della processione, l'odio ormai scomparso per don Rodrigo...Verso sera arriva a Sesto e compra due pani; " uno in tasca e l'altro alla bocca, e avanti". A Monza è già notte: tuttavia riesce a trovare la strada giusta. L'accidentato percorso notturno, accompagnato da ricordi e sogni, tornerà spesso nei racconti avvenire di Renzo: racconti che-osserva il narratore-anche l'anonimo deve aver ascoltato dalla sua voce.
All'alba la pioggia è divenuta un'acqueruggiola fine; il "viaggiatore" si trova sulla riva dell'Adda e rivede, con gran consolazione, il Resegone e i luoghi a lui cari. È a Pescate; costeggia l'ultimo tratto del fiume, passa il ponte ed è subito a casa dell'amico ospitale. Gli comunica tutto eccitato la lieta notizia; poi, riscaldandosi al fuoco, si cambia gli abiti zuppi e infangati e si rifocilla con la polenta preparata dall'amico. Per tutta la giornata, mentre dà una mano per i preparativi dell'imminente vendemmia, racconta senza stancarsi le sue esperienze milanesi. Il giorno dopo, all'alba, parte per Pasturo, dove si trovava Agnese.
Nel paese gli è indicata una casuccia isolata. Agnese si affaccia alla finestra, ed egli previene ogni sua domanda con notizie consolanti: " Lucia è guarita: l'ho veduta ierlaltro; vi saluta; varrà presto". Agnese vorrebbe precipitarsi ad aprirgli, ma Renzo si è fatto cauto: "Aspettate: e la peste?". La donna gli indica allora un orto dietro casa, dove sono due panche: il luogo ideale per parlare senza pericolo di contagio. La conversazione è tutto un "esclamare", un "condolersi", un "rallegrarsi": si parla di don Rodrigo e di fra Cristoforo, si avanzano progetti, come quello di andare a vivere tutti insieme nel Bergamasco dove Renzo è già avviato bene nel lavoro. Appena cessato il pericolo della peste, Agnese tornerà al suo paese ad aspettare Lucia; i cinquanta scudi che Renzo aveva a suo tempo ricevuto serviranno per mettere su casa.
Renzo, lieto di aver trovato Agnese sana e salva, torna a casa con l'amico. La mattina dopo, di buon'ora, parte verso il paese adottivo. Qui trova Bortolo in buona salute e fiducioso: il male ha infatti perso la sua virulenza, e si manifesta al più con febbriciattole, o con qualche "piccol bubbone scolorito"; la gente comincia ad uscire, " a farsi a vicenda condoglianze e congratulazioni"; si parla già di riprendere i lavori. Renzo trova a casa e l'arreda, "che tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che la comprassero". Dopo alcuni giorni Agnese, accompagnata da Renzo, torna al paese e trova la casa come l'aveva lasciata: questa volta, pensa, " avevano fatto la guardia gli angioli". Si mette subito in faccende per ospitare in modo decoroso la mercantessa; poi va in cerca di seta , e lavorando passa il tempo. Renzo, dal canto suo, aiuta l'amico a coltivare il podere, e dissoda l'orticello di Agnese; del proprio, troppo inselvatichito, non si cura. Il bando è ormai cosa passata: i decreti, se non colpivano subito, rimanevano senza effetto, " come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non danno fastidio a nessuno". In quanto a don Abbondio, lui e Renzo si evitavano a vicenda: don Abbondio perchè non vuol " sentire intonar qualcosa di matrimonio"; Renzo perchè non vuole parlarne finché non sia giunto il momento. Si sfogava con Agnese, e sempre sullo stesso argomento: il ritorno tanto atteso di Lucia.

Carme 5: Un esortazione all'amore

Vivamus mea Lesbia ,atque amemus,
rumorosque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt;
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum, deinde usque altera mille, deinde centum;
dein, cum milia multa facerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciar esse basiorum.

Traduzione:
Viviamo mia Lesbia, e amiamoci, e stimiamo tutte le chiacchiere dei vecchi troppi austeri meno di uno spicciolo. I giorni possono tramontare e nascere:?una volta che per noi viene meno la breve luce, c'è un unica e infinita notte da dormire. Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi altri cento, poi sempre altri mille, poi cento. Poi, quando ne avremmo fatti molte migliaia( quando ce ne saremo scambiati molte migliaia), li scompiglieremo, affinché nessun malvagio possa farci il malocchio ( invidiarci), sapendo che la quantità di baci è tanta

Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785. La madre Giulia Beccaria, figlia del marchese Cesare, autore del trattato Dei delitti e delle pene (1764), aveva sposto tre anni prima il nobile Pietro Manzoni. Tuttavia si sospetta che Alessandro fosse figlio di Giovanni Verri. Nel 1791 Alessandro iniziò gli studi, prima presso i frati Somaschi, poi presso i Barnabiti. La madre intanto, separatasi dal marito, era andata a vivere a Parigi col conte Carlo Imbonati. Lontano dagli affetti familiari, il giovane collegiale compì studi severi, reagendo alla chiusura dell'ambiente con lo studio assiduo dei classici latini e greci. Nel 1801 Alessandro lasciò il collegio per trasferirsi nella casa paterna. Agli anni tra il 1801 e il 1805 risale la sua amicizia con intellettuali di grande rilievo come Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco. Nel 1805, la morte di Carlo Imbonati, che lasciava Giulia Beccaria erede di un cospicuo patrimonio, favorì l'avvicinamento di Alessandro alla madre. Egli la raggiunse a Parigi, e nei salotti parigini conobbe gli "ideologi" ( un gruppo di giuristi, medici, tecnici e insegnanti illuministi che perseguivano un ideale politico ispirato a un riformismo laico e anti-autoritario, contro i fanatismi e i dispotismi); tra questi ricordiamo Claude Fauriel, che strinse con Manzoni una profonda amicizia. Nel 1807 alla morte di Pietro Manzoni, Alessandro tornò con la madre a Milano, dove conobbe e sposò Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere Ginevrino, di fede Calvinista e profondamente credente. Verso la metà del 1808 la coppia rientrò a Parigi, dove nacque la prima figlia: Giulia. Il romanzo "Fermo e Lucia" fu iniziato da Manzoni nell'aprile del 1821 e terminato nel settembre del 1823. Il romanzo rielaborato e pubblicato nel 1827 con il titolo di "Promessi Sposi", fu sottoposto subito dopo a un lungo e complesso lavoro di revisione linguistica, che richiese frequenti soggiorni a Firenze e da cui uscì l'edizione definitiva, pubblicata tra il 1840 e il 1842. Ma intanto gravi lutti: la morte di Enrichetta nel 1833, della figlia Giulia nel 1834, della madre nel 1841, delle figlie Cristina e Sofia nel 1841 e nel 1845, avevano contribuito a spegnere la creatività dell'artista. Numerosi sono stati gli scritti sul problema della lingua, che si era imposto allo scrittore fin dalla prima stesura del romanzo. Manzoni partecipò non con l'azione, ma come intellettuale, attraverso la sua opera di pensatore e di poeta, al Risorgimento , le cui vicende seguì con intensa passione. Nel 1848 firmò, con altri patrioti, la petizione a Carlo Alberto perchè intervenisse in Lombardia; nel 1861 accettò la nomina a senatore e partecipò, a Torino, alla seduta in cui venne proclamato il Regno d'Italia; in seguito votò il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, primo passo verso Roma capitale. Nel 1872 accettò la cittadinanza onoraria di Roma, con scandalo dei clericali. M le sue capacità lavorative, compromesse anche da gravi disturbi nervosi, erano ormai limitate dagli anni e da nuovi gravi lutti: nel 1861 la morte della seconda moglie, Teresa Borri, che aveva sposato nel 1837; nel 1868 la morte del figlio Filippo e nel 1871 quella del figlio Pietro.
Alessandro Manzoni si spense a Milano il 22 maggio 1873.

venerdì 25 maggio 2012

La statua di Zeus ad Olimpia

La statua di Zeus ad Olimpia (versione numero 1 pag 347 del libro: "I greci la lingua e la cultura 2"; da Pausania)

Il Dio fatto d'oro e d'avorio siede su un trono: una corona giace su di lui sulla testa che imita rami d'ulivi. Nella mano destra porta Atena Nike, anche questa d'avorio e d'oro, che ha una fascia e una corona sopra la testa; Nella mano sinistra del Dio c'è uno scettro adornato da tutti i metalli. L'uccello che siede sopra lo scettro è un aquila. Il Dio ha anche sandali d'oro e parimenti il mantello. Nel mantello sono riprodotti dei fiori (che sono) gigli. Il trono non è solo d'oro e di pietre di vario colore, ma anche d'ebano e d'avorio: e sulla sua iscrizione sono riprodotti animali e sono lavorati ornamenti. Davanti a uno dei piedi giacciono fanciulli che vengono catturati da Sfingi Tebane.

Teopompo risponde a Falino

 Dopo questo (=Falino) l'ateniese Teopompo disse: "Falino, come ora tu vedi, nient'altro abbiamo di utile se non le armi e la virtù. Possedendo le armi infatti, siamo certi di detenere la virtù, come anche di morire [lett: di essere stati privati dei corpi] se abbiamo invece consegnato queste cose. Non credere adesso che abbandonare le uniche cose che ci sono utili sarà da noi, ma con queste combatteremo e anche per (ottenere) le tue." Avendo ascoltato ciò, Falino sorrise e disse: "Ma somigli a un filosofo, o giovinetto, e non dici cose spiacevoli: sappi però che sei uno sciocco se credi che il vostro valore stia per avere la meglio sulla potenza del re."

Teseo e il minotauro

Teseo e il minotauro


Minosse ordinò agli ateniesi di offrire sette fanciulli e altrettante fanciulle in pasto al Minotauro per nove anni, cioè per il tempo in cui il mostro fosse in forze. Essendo stati offerti, quelli {ndt. gli abitanti} nell'Attica si allontanarono dalle calamità, e Minosse finì di combattere contro gli ateniesi. Quando furono passati nuovamente nove anni [nove di quelli], Minosse andò in Attica con una grande flotta, ed avendo richiesto il doppio di sette giovani, li portò via. Volendo essi salpare verso Teseo, Egeo andò dal timoniere e gli ordinò, se Teseo avesse sconfitto il Minotauro, di navigare con vele bianche, se invece fosse morto, con quelle nere, come infatti facevano anticamente. Avendo essi navigato verso Creta, Arianna la figlia di Minosse si invaghì della bellezza del valoroso Teseo; Teseo le parlò, e avendo ottenuto una complice, uccise il Minotauro e si mise in salvo poiché aveva saputo grazie a lei l'uscita del labirinto

Storia di un cane fedele

Storia di un cane fedele     da Plutarco


Il re Pirro s'imbatté viaggiando in un cane che proteggeva il corpo di un assassinato, ed avendo saputo che quello (ndt. il cane) era rimasto lì per tre giorni senza cibo e non lo aveva abbandonato, ordinò di inumare il cadavere e portò il cane con sé. Pochi giorni dopo, schierati i soldati, stando seduto il re, il cane era in tranquillità. Poiché vide che erano passati gli uccisori del padrone, corse fuori con ringhi e rabbia contro di loro ed abbaiò ripetutamente volgendosi dietro verso Pirro, ragion per cui gli uomini erano diventati sospetti non solo per lui, ma anche per tutti coloro che erano presenti. Essendo stati presi immediatamente ed interrogati, confessato l'omicidio, vennero puniti.

Rassegna della spedizione degli ateniesi in Sicilia

Rassrgna della spedizione degli ateniesi in Sicilia


Gli Ateniesi venivano trasportati verso la Sicilia con centotrentaquattro trireme e centodue navi di Rodi a cinquanta remi. Delle trireme, cento erano ateniesi: sessanta veloci, mentre le altre (piene) di soldati. Gli opliti erano cinquemila e cento. Tra gli Ateniesi v'erano cinquemilacento opliti, (di cui) settecento a bordo delle navi. Gli Argivi erano cinquecento ed i Mantineesi duecentocinquanta. Gli arcieri erano quattrocentottanta, di essi ottanta erano cretesi; c'erano anche settecento frombolieri di Rodi e centoventi megaresi armati alla leggera. Una nave per il trasporto ippico conduceva trenta cavalli. I competenti pilotavano trenta navi onerarie e cento imbarcazioni da trasporto.

"Scegli l'ultimo posto"

"Scegli l'ultimo posto"    dal Vangelo di Luca


Accadde di sabato che lui (=Gesù) nell'andare a casa di uno dei capi dei Farisei, avesse mangiato del pane, e altri stavano ad osservarlo. Offrendo i primi posti a mensa come sceglievano gli invitati, Gesù raccontava loro una parabola dicendogli: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, affinché non ci sia un invitato più ragguardevole di te ed essendo venuto colui che ha invitato te e lui, ti dirà: cedigli il posto, e allora comincerai con vergogna ad occupare l'ultimo posto. Invece quando sei invitato, una volta arrivato, va' a metterti all'ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dirà: amico, avvicinati di più; allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali: perché chiunque esaltandosi sarà umiliato, mentre umiliandosi sarà esaltato."

Seleuco e il contadino

Seleuco e il contadino   da Plutarco


Seleuco il Callinico, avendo perso le forze e tutto l'esercito nella battaglia contro i Galati, toltosi la corona reale, fuggito a cavallo assieme a tre o quattro ed avendo ormai vagato a lungo, avanzò ritirandosi per necessità in una casa rurale e, quando ebbe trovato proprio il padrone, chiese del pane e dell'acqua. Quello dunque, offrendo in abbondanza tutte queste cose e quant'altro aveva nel campo, accogliendolo amichevolmente, riconobbe il volto del re e, divenuto pieno di gioia per l'accaduto, non si contenne, non mentì con il sovrano che voleva restare in incognito, ma avendolo accompagnato fino alla strada e congedandosi, disse: "Salve, o re Seleuco!". E l'altro, tesa la mano destra, e traendolo a sé per baciarlo, fece segno ad uno di quelli con lui di tagliare la testa dell'uomo con una spada.

Semiramide

Semiramide   da Eliano


Alcuni celebrano in diversa maniera Semiramide l'Assira, era infatti la più avvenente tra le fanciulle, sebbene si servisse della bellezza in modo alquanto sfacciato. Giunta presso il re degli Assiri invitata per la fama del suo fascino, incontratala, egli se ne innamorò. Lei però chiese al re di prendere l'abito regale e regnare sull'Asia per cinque giorni e fare le cose da lei ordinate. Ottenne la richiesta. Dopo che il sovrano la pose sul trono e lei si accorse di avere ogni cosa sotto controllo e a sua disposizione, ordinò alle guardie del corpo di uccidere proprio il re; e così ottenne il potere sugli Assiri. Racconta tali vicende Dinone.

Un presagio favorevole

Un presagio favorevole  da Senofonte


 Si drizza una lepre davanti a lui che camminava nel primo campo che incontrava; un'aquila di buon auspicio, volteggiando, vista la lepre che fuggiva, attaccandola la colpì ed una volta afferrata, la portò via, e lanciatasi sul collo, non lontano consumava la preda. Dunque Ciro, scorto il presagio favorevole, si rallegrò e venerò Zeus, poi disse ai presenti: "Uomini, sarà buona la caccia, se il Dio vorrà". Come arrivò ai confini, immediatamente cacciava; e la maggior parte dei fanti e dei cavalieri gli stava davanti per snidare le bestie; i migliori, sia i fanti che i cavalieri si separarono ed incalzavano e inseguivano quelle che si levavano; catturavano quindi molti cinghiali, cervi, gazzelle ed asini selvaggi: ancora adesso sono molti infatti gli asini in quei luoghi.

Precetti morali

Precetti morali  da Isocrate


Io proverò a scriverti in poche parole delle raccomandazioni, grazie alle quali sarai onesto e avrai buona fama presso tutti gli altri uomini. Prima di tutto quindi, venererai gli Dei non solo facendo sacrifici, ma anche mantenendo i giuramenti. La prima cosa è infatti segno di ricchezza, la seconda invece è prova di assoluta rettitudine del carattere. Onora oltremodo la divinità in occasione delle cerimonie pubbliche, così infatti mostrerai allo stesso tempo di venerare gli Dei e di mantenere i giuramenti. Possa tu diventare per la tua stirpe come tu vorresti che i tuoi figli diventassero per te. Tra gli esercizi per il corpo svolgi non quelli che accrescono la forza, ma quelli che (migliorano) la salute. Abituati all'essere non di malumore, ma serio; con il primo comportamento infatti sembrerai essere arrogante, mentre con l'altro assennato. Qualora tu sia desideroso d'apprendere, sarai molto colto.

Nulla si ottiene senza fatica

Nulla si ottiene senza fatica   da Senofonte


Gli Dei non concedono agli uomini nessuna delle cose che sono buone e belle senza fatica ed impegno; d'altra parte, se vuoi che gli Dei ti siano propizi, devi venerare gli Dei; se desideri essere accolto dagli amici, devi beneficiare gli amici; se aspiri ad essere onorato da una città, devi giovare alla città; se reputi opportuno essere ammirato da tutta la Grecia, devi dar prova di ben servire la Grecia; se auspichi che la terra produca per te abbondanti frutti, coltiva la terra; se credi di aver bisogno del bestiame per arricchirti, abbi cura del bestiame; se invece vuoi essere forte nel corpo e tener fede al monito, devi abituare il corpo ed esercitarlo con fatica e sudore.

Patriottismo di Agesilao

Patriottismo di Agesilao


Tutti sappiamo che Agesilao, quando riteneva necessario soccorrere la patria, non si arrendeva alle fatiche, né si asteneva dai pericoli, né risparmiava ricchezze, né utilizzava il pretesto del corpo o della vecchiaia, ma riteneva anzi compito di un re eccellente realizzare opere assai valenti per i sudditi. Tra i grandi benefici della patria, ecco che anch'io dico di lui che, pur essendo il più gagliardo in città, era molto celebre poiché servo delle leggi. Chi infatti avrebbe voluto disobbedire guardando il re che obbediva? Chi invece, considerandosi in condizione d'inferiorità, si sarebbe accinto a creare cambiamenti radicali, osservando che il sovrano sopportava l'esser subordinato (a un'autorità ndt.) per legge? Egli inoltre si comportò con gli avversari in città come un padre con i figli. Li deplorava quindi per gli errori, ma li onorava se compivano una buona azione. Veniva in aiuto se accadeva una sventura ad un avversario, non giudicando alcun cittadino, desiderando di lodarli tutti, confidando in ogni vantaggio se (erano) sani e salvi.

Medea

Medea  da Apollodoro



Giunto a Corinto e portando con sé anche Medea, Giasone da garanzia di matrimonio con Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto. Medea, in procinto di essere cacciata per opera di Creonte da Corinto, chiedendo ed avendo ottenuto di rimanere anche per un solo giorno, per mezzo dei figli manda a Glauce una veste ed una corona aurea, dono di gratitudine per la cortesia, vestendosi con le quali lei (Glauce) è uccisa e Creonte, essendosi stretto alla figlia, muore. Medea quindi, dopo aver ucciso i suoi stessi figli e trovandosi a bordo di un carro di draghi alati, che prese da Elio, fugge ad Atene e là sposa Egeo di Pandione.